Le origini della violenza
Cosa è la violenza? Da dove viene? Quando è comparsa nella vita degli esseri umani?
È nostro dovere trovare una risposta a queste domande per contribuire all’evoluzione umana.
Violenza e aggressività sono caratteristiche innate?
Le basi della nostra società sono impregnate di violenza. Spesso viene considerata come uno strumento utile per alcuni nell’ottenere privilegi a discapito di altri. Discriminazione, razzismo, disparità tra uomo e donna, possesso, schiavitù silente, sono tutti processi di disumanizzazione.
Quando parliamo di violenza può capitare di confonderci con l’aggressività. Per questo motivo è opportuno distinguere i due termini. Il comportamento violento è di natura socioculturale, mentre l’aggressività è di natura impulsiva. Ciò significa che l’aggressività può essere intesa come un impulso. Se questo impulso non viene gestito in maniera funzionale, può portare l’individuo ad agire violentemente.
L’Enciclopedia Treccani mette in luce la definizione psicodinamica dell’aggressività:
[…] l’aggressività, perde progressivamente lo statuto di motivazione istintiva per assumere quello di risposta più̀ o meno adattiva ai fallimenti ambientali (cure parentali inadeguate, condizioni precoci di deprivazione ecc.); ne segue, sul piano della teoria della tecnica psicoanalitica, un approccio che tratta l’aggressività, come non necessariamente distruttiva, ma come un segnale da saper cogliere e rimodulare nella terapia.[1]
Questa definizione ci lascia una speranza, una possibilità di cambiare le cose. Siamo in tanti a pensare che la nostra società sia gravemente ammalata e che l’essere umano soffra a causa delle proprie azioni. Per riuscire ad andare avanti, evolverci e tornare alla nostra natura, è necessario portare l’intera società in terapia. Oltre a questa definizione di aggressività, nella storia sono state fatte molte considerazioni sulla sua origine e funzionalità.
Nel corso del tempo, alcune primissime risposte sono state trattate da etologi e sociobiologi, i quali ritenevano che l’aggressività e, con essa, la violenza, fosse una caratteristica innata dell’essere umano.
Konrad Lorenz (1966),[1] etologo austriaco, era convinto che la violenza servisse alla sopravvivenza sia del singolo individuo che della specie. Egli stesso rifiutava di considerare l’ambiente come elemento influente. Infatti, se la causa derivasse dal contesto, basterebbe eliminare gli elementi che portano ad agire violentemente per risolvere il problema.
Lionel Tiger,[2] antropologo americano, sosteneva che la violenza fosse legata al sesso maschile. E che vi fosse una predisposizione ereditaria geneticamente programmata, funzionale all’epoca in cui gli uomini avevano bisogno di cacciare per sopravvivere.
Anche Edward Wilson,[3] sociobiologo americano, sosteneva che la violenza umana è una questione ereditaria innata. Wilson affermava l’esistenza di una correlazione tra potenziale genetico ed apprendimento. Se la violenza è una caratteristica genetica dell’essere umano, a seconda degli ambienti in cui l’individuo cresce, ha più possibilità o meno di essere sviluppata. Wilson sapeva che esistono delle società pacifiche. Egli non escludeva l’influenza dell’ambiente, ma non lo considerava nemmeno come fattore patologico sottostante all’emersione di comportamenti violenti.
Sul pensiero di questo sociobiologo si possono porre le basi per ritenere che discriminazione, oppressione umana, sfruttamento e abuso abbiano fondamenta biologiche. Ciò significa che, anche agendo sull’ambiente in cui gli individui crescono, il problema della violenza umana non potrà mai risolversi in quanto fattore biologico.
Tuttavia, se questa fosse veramente l’unica strada, dovremmo semplicemente accettare la violenza umana come elemento necessario e naturale, normalizzando ulteriormente alcuni processi che hanno portato innumerevoli sofferenze a ognuno di noi.
Le teorie dell'Attaccamento
John Bowlby[4] (1907-1990), teorico dell’attaccamento infantile,[5] attraverso i suoi studi sui primati non umani e sulla relazione madre-bambino, dimostra come l’essere umano sia un animale cooperativo e sociale e che la violenza non è una caratteristica semplicemente innata.
L’essere umano ha una vera e propria predisposizione genetica a formare legami di attaccamento e questi hanno un’influenza importantissima rispetto all’emersione di condotte violente. L’attaccamento ha una funzione fisiologica di protezione rispetto alla sopravvivenza della specie e dell’individuo: attraverso il comportamento di attaccamento viene mantenuto un legame stabile tra l’individuo e l’ambiente, in modo tale che l’individuo si senta sicuro.
Bowlby ha osservato la relazione madre-bambino, poiché è il primo legame che gli esseri umani instaurano alla nascita. Attraverso l’esperimento chiamato Strange Situation, Bowlby e Mary Ainsworth (1967) hanno dimostrato la veridicità delle Teorie dell’Attaccamento.
L’esperimento avviene all’interno di una stanza arredata con giochi con cui il bambino interagisce e una sedia occupata dalla madre. Durante l’esperimento, viene osservata la relazione madre-bambino in base alla tipologia di attaccamento. I momenti che vengono analizzati sono: l’entrata della madre all’interno della stanza, la permanenza e l’uscita. Ciò che viene osservato è il comportamento del bambino in ogni fase. I teorici hanno identificato diverse tipologie di attaccamento che implicano una relazione diversa tra la madre e il bambino.
Cresciuto attraverso un attaccamento sicuro nei confronti della madre, il bambino sarà un individuo che per la vita ha sperimentato una condizione di sicurezza e fiducia, sia nei confronti delle persone che si sono prese cura di lui, sia della società. L’individuo manterrà una visione positiva di Sé, riuscendo ad avere fiducia e sicurezza rispetto alle proprie capacità. La madre ha mantenuto un atteggiamento empatico nei confronti del bambino, riuscendo a trasmettere la stessa capacità.
L’attaccamento insicuro-evitante porta l’individuo ad avere sfiducia e insicurezza sia rispetto a se stesso che al mondo esterno. Il bambino, in questo caso, ha sperimentato trascuratezza e mancanza di empatia da parte della madre e ha imparato, come meccanismo di difesa, a evitare i sentimenti. In questo caso l’individuo non avrà acquisito la capacità di essere empatico. Il bambino cresciuto attraverso un legame insicuro-ambivalente ha sperimentato un modello altalenante di cure e attenzioni, per esempio: qualche giorno mi accorgo che esisti, mentre altri non ci sei. Questi bambini, poi diventati adulti, non sono stati in grado di prendere le giuste misure e, quindi, di apprendere comportamenti coerenti da attivare in determinate situazioni.
Per ultimo, l’attaccamento disorganizzato è caratterizzato da trascuratezza, abusi e maltrattamenti sia fisici che sessuali. Solitamente i genitori hanno delle psicopatologie. Il bambino che ha subito questo trattamento presenta molti comportamenti contraddittori e improvvisi. Per fare un esempio, durante la Strange Situation, il bambino, inizialmente lasciato da solo all’interno della stanza, piange e cerca costantemente la madre. Finalmente la madre accede all’interno e si siede. Cosa ci si aspetta? Che il bambino dopo essersi disperato e aver consumato tutte le lacrime, corra verso la madre e la riempia di baci. Ma questo non accade. “Magicamente” il bambino la evita; oppure si avvicina per poi allontanarsi bruscamente e rimanere al centro della stanza, immobile e quasi intontito. Oppure, ancora una volta, interagisce con lei senza guardarla negli occhi.
Si tiene a precisare che il focus che Bowlby pone sulla relazione madre-bambino e sulla figura femminile non vuole alludere a una responsabilizzazione della donna rispetto la nascita di comportamenti violenti. Ciò non significa che la causa della nascita della violenza umana sia la donna.
La violenza è una questione che deve essere studiata e interpretata attraverso un atteggiamento multidisciplinare che, come abbiamo visto, deve tenere conto della parte biologica, psicologica, sociale e culturale. La violenza non guarda e non appartiene a un unico genere sessuale, bensì ci coinvolge tutti.
Cooperazione ed Empatia
Riprendendo il nostro discorso, Bowlby ha affermato che nel bambino si creano dei Modelli Operativi Interni,[6] cioè schemi comportamentali che racchiudono le tipologie di legami di attaccamento, l’immagine del proprio Sé (quindi di se stessi), del mondo e delle figure educative.
È fondamentale mantenere un atteggiamento empatico e di sintonizzazione con il proprio bambino. Capire i suoi bisogni fisiologici ed emotivi, rispondere adeguatamente alle sue richieste sono azioni fondamentali per insegnargli ad autoregolarsi, a leggere le proprie emozioni e quelle altrui. Infatti, tramandare l’arte dell’empatia è uno dei compiti fondamentali, in quanto inibisce i comportamenti violenti.
Sappiamo che i bambini manifestano comportamenti aggressivi ed esprimono rabbia quando le loro richieste non vengono accolte. Tali esplosioni di rabbia sono espressione di bisogni, che se ricevono una risposta immediata e adeguata si risolvono sul momento. Diversamente, se chi si prende cura del bambino non risponde immediatamente e adeguatamente ai suoi bisogni (magari evitandolo), il piccolo imparerà a reagire sempre con una rabbia che diventa disfunzionale e viene interiorizzata come modello comportamentale. Ogni volta che l’adolescente e/o l’adulto in questione non vedrà la sua richiesta accolta, reagirà con rabbia e aggressività.
I nostri comportamenti hanno una potenzialità intergenerazionale. Ciò significa che le modalità con cui ci comportiamo nei confronti dei nostri figli, e/o dei nostri alunni, hanno una importanza significativa per l’evoluzione umana. Adottare comportamenti empatici nei confronti degli altri può contribuire alla diminuzione della violenza all’interno della nostra società.
Il nostro modello operativo interno, nonché i nostri schemi comportamentali, l’idea che abbiamo di noi stessi e del mondo esterno, sono tutte cose che possiamo trasmettere al prossimo. Anche i legami che creiamo da adolescenti e da adulti sono considerati legami di attaccamento. Ogni legame intimo rappresenta una base sicura nella quale abbiamo la possibilità di modificare i nostri schemi comportamentali. Siamo tutti responsabili della società che creiamo e delle sofferenze di cui peniamo.
Dagli studi di Bowlby e dei suoi colleghi emerge questa natura cooperativa dell’essere umano, che non ha nulla a che fare con un’indole violenta. La rabbia è espressione di disagio ed è stata strumentalizzata come metodo di sopraffazione. Per quanto la violenza sia stata funzionale nella preistoria, non ha senso mantenerla come strumento.
Conclusione
La violenza non è una nostra caratteristica innata e con lei, la rabbia, va sublimata (richiamando le teorie freudiane) in altro.
Abbiamo bisogno di cooperare. Subiamo fortemente l’influenza dei primi legami di attaccamento e a partire da questi costruiamo la nostra identità. Riflettendo su questi studi, la domanda è sorta spontanea: quali sono le caratteristiche degli attori che agiscono violenza sulle donne? Quale tipologia di legame di attaccamento hanno sperimentato questi attori nei primi anni di vita e nel corso della stessa? Quali personalità si sono formate?
Cercheremo di rispondere a queste domande nel prossimo articolo. Per il momento, ricordiamoci che se viviamo è perché abbiamo il potere di cambiare le cose, ma non esiste cambiamento senza punti di domanda.
Fonti
[1] Voce da Enciclopedia Treccani online, https://www.treccani.it/enciclopedia/aggressivita/, ultima consultazione 19 settembre 2021.
[1] Lorenz K., Das sogenannte Bose: Zur Naturgeschichte der Aggression, Dr. G. Borotha Schoeler, Verlag, Wien 1963. tr. it a cura di Elisabetta Bolla, L’aggressività, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 2015. Konrad Zacharias Lorenz (Vienna, 7 novembre 1903 – Altenberg, 27 febbraio 1989) è stato un etologo e zoologo austriaco. K. Lorenz studiò medicina presso l’Università di Vienna. È considerato il fondatore della moderna etologia scientifica. Nel 1973 ha vinto il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia, per i suoi studi sulle componenti innate del comportamento umano e sul fenomeno dell’imprinting delle oche selvatiche.
[2] Tratto da F.D. Zulueta, From Pain to Violence: Traumatic Roots of Destructiveness, John Wiley & Sons AND Sons LTD, 1993, tr. it a cura di C. Pessina Azzoni, Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009. Lionel Tiger (Montreal, 5 febbraio 1937) è un antropologo e consulente del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sul futuro della biotecnologia. L. Tiger, si è laureato alla McGill University, e presso l’Università di Londra, in economia. Lionel Tiger vive a New York e lavora anche con il New York Times.
[3] F.D. Zulueta, ivi. Edward Osborne Wilson (Birmingham, 10 giugno 1929) è un biologo statunitense. E.Wilson, ha svolto varie ricerche sulla mirmecologia (branca dell’entomologia che studia le formiche), la biodiversità e la sua distribuzione. Ha fondato la ricerca sociobiologica ed è autore di numerosi saggi, due dei quali hanno ottenuto il Premio Pulitzer per la saggistica. Edward Wilson ha conseguito il master presso l’Università di Alabama e un dottorato di ricerca in biologia presso la Harvard University.
[4] J. Bowlby, A Secure Base: Clinical Applications of Attachment Theory, London : Routledge, 1988. tr.it a cura di M. Magnino, Una base sicura, Raffaello Cortina Editore, Milano, via Rossini 4, 1996. John Bowlby (Londra, 26 febbraio 1907 – Isola di Skye, 2 settembre 1990) è stato uno psicologo, medico e psicoanalista britannico. J.Bowlby ha elaborato la teoria dell’attaccamento. J.Bowlby si è laureato in scienze precliniche e psicologia presso il Trinity College di Cambridge, si è laureato in medicina e si è diplomato come analista presso lo University College Hospital e l’Istituto di Psicoanalisi, a Londra.
[5] La teoria dell’attaccamento fu formulata alla fine degli anni Sessanta e la sua diffusione è legata soprattutto alle opere di J. Bowlby e alla numerosa serie di ricerche a esse ispirata. L’attaccamento viene definito come una classe di comportamento, sia del bambino che della madre, i quali hanno come scopo comune quello di raggiungere e/o mantenere la vicinanza reciproca. Questi comportamenti sono intesi come istintivi, in antitesi sia alle teorie psicanalitiche che a quelle comportamentistiche (ipotizzando così che la motivazione sociale risultante nei comportamenti di attaccamento sia una motivazione primaria). Appartengono quindi al corredo biologico della specie umana in funzione probabilmente di una “protezione dai predatori” che, in termini di sopravvivenza della specie, riveste un’importanza almeno eguale alla nutrizione e alla riproduzione. (https://www.treccani.it/enciclopedia/attaccamento, ultima consultazione 19 settembre 2021).
[6] I Modelli Operativi Interni (in inglese Internal Working Models, IWM) deputati a organizzare a livello conscio e inconscio le informazioni rilevanti per l’attaccamento, non solo si fondano su vissuti reali ma su quei modelli di interazione e di risposta affettiva che si ripetono nel corso del tempo. Infatti, non riflettono tanto una rappresentazione reale e obiettiva del genitore, quanto piuttosto la storia delle risposte affettive e delle disponibilità del genitore nei confronti delle richieste di sicurezza del bambino. La loro funzione sarebbe quella di essere utilizzati per interpretare gli eventi, fare previsioni sul mondo circostante, valutare nuove situazioni e guidare il comportamento, non solo come filtri passivi dell’esperienza ma come mezzi attraverso cui ricreare attivamente le proprie esperienze relazionali (tratto da Dott.ssa Elisa Bressani. Ultima consultazione 19 settembre 2021. http://www.elisabressani.it/la-teoria-dellattaccamento-i-modelli-operativi-interni/).
Chiara Schiavone
Chiara ha conseguito il Diploma in Arti Figurative e Beni Culturali presso il Liceo Artistico Francesco Arcangeli di Bologna. Si è poi laureata in Scienze dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Ferrara e attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale di Pedagogia presso l’Università di Bologna. Attualmente lavora come Educatrice Professionale e svolge il tirocinio come Coordinatrice Pedagogica. Appassionata di arte, scrittura e musica, è sensibile a temi quali: violenza, educazione e ricerca del proprio Sé.
Articolo molto interessante!
Dalle parole dell’autrice traspare una grande attenzione al tema.
Grazie Eleonora.
Nei prossimi mesi ci saranno approfondimenti altrettanto interessanti!