Dietro il linguaggio

Perché l’uso del plurale maschile non può essere affrontato solo da un punto di vista linguistico

Introduzione

Le parole sono solo parole. Un pensiero comune è che contino i fatti, non le parole. Siamo abituati all’idea che il linguaggio, abbia un peso specifico trascurabile rispetto alle nostre azioni.

Eppure, a ben pensarci, in Non ci resta che piangere,[1] l’epopea del duo Troisi-Benigni, coinvolto suo malgrado in un salto nel passato, accade qualcosa di esemplificativo. Siamo all’alba della partenza di Cristoforo Colombo per l’America. Lo sforzo epico per impedirne la scoperta è voluto per scongiurare la delusione amorosa della sorella del personaggio interpretato da Benigni, lasciata da un americano. Ma non è tanto sull’evento sentimentale in sé che Benigni si concentra, quanto piuttosto sulla risposta alla domanda apprensiva «Come stai?», alla quale lei risponde «Tutto okay». Benigni non se ne capacita. “Tutto okay”. Okay: è un dramma.

A oggi con quale naturalezza (e talvolta con quanto abuso) adoperiamo nel nostro linguaggio quotidiano termini anglofoni? “Sono impegnato in una call”, “organizziamo un meeting”, “ci vediamo durante il coffee break”. Tutto a partire da quel 1492.

Lungi dalle intenzioni del presente articolo condannare l’uso di queste forme linguistiche, gli esempi di cui sopra sono solo uno spunto di riflessione su quanto si celi dietro le parole. Che a questo punto, forse, non sono solo parole.

L'asterisco dell'Accademia della Crusca

La divisione netta che si effettua tra le parole e l’azione ha giustificato l’intervento autorevole dell’Accademia della Crusca sulla questione del maschile sovra-esteso,[2] ovvero la regola grammaticale che permette di riferirsi a gruppi misti di persone attraverso la forma maschile (cosiddetto maschile non marcato[3]): i lavoratori, gli studenti, i professori, e via discorrendo.

L’Accademia nell’articolo ci tiene a precisare che l’analisi, così come compete a un’istituzione che non ha carattere politico, è di natura strettamente linguistica. In questo modo sembra affermare che, per quanto riguarda l’uso del maschile plurale, sia necessario guardare alla correttezza propria della grammatica normativa e scolastica

Certo, quell’intervento, pur approfondito e autorevole, mostra in più di un passaggio il fianco a una presa di posizionequesta sì, politicaalquanto conservatrice. Paolo D’Achille, autore dell’articolo, glissa su alcune mancanze della nostra lingua. Egli giustifica la stroncatura all’immissione di nuove forme espressive con l’indiscutibile motivazione che la lingua italiana è da considerarsi stabilizzata, soprattutto da un punto di vista ortografico.

In altre parole, il linguaggio italiano è da considerarsi una lingua plasmata e normata nei secoli che non presenta perciò i tratti elastici di lingue meno sedimentate, in cui le aggiunte in corso d’opera risultano più semplici.

Proprio da questo punto di vista, piuttosto citato (anche dalla stessa Accademia della Crusca) è il caso della lingua svedese con l’introduzione del pronome hen di forma neutra.[4]

Se da una parte la disamina tecnica e normativa dell’Accademia risulta formalmente impeccabile, dall’altra finisce per trascurare – non direttamente, certo – un aspetto fondamentale della questione. La discussione del maschile plurale non è solo grammaticale, ma anche sociale, politica e culturale. Ridurre tutto a una regola scolastica è ingiusto per un tema che, dopo tanto tempo, porta la linguistica fuori dalle polverose biblioteche in cui si accapigliano gli accademici e arriva sino al modesto bar di periferia. Anzi, il fatto che ci sia arrivato dimostra quanto collettiva e complessa sia la problematica.

Come ogni discussione da bar (ma la cosa accade anche negli ambienti accademici), sulla questione si sono create fazioni, gruppi di irriducibili che si schierano con un fervore e una fede da far arrossire il più appassionato dei religiosi. Il colpo inferto dall’Accademia è stato recepito come un trionfo dai sostenitori conservatori, ma ha generato anche una notevole confusione.

Occorre ribadirlo e probabilmente chiarirlo: l’Accademia della Crusca si è espressa curando soltanto l’aspetto strettamente linguistico, tralasciando l’impatto sociale e culturale del linguaggio.

Il tentativo di questo articolo è quello di illustrare la complessità dell’argomento, messa
a repentaglio dallo scudo “la Crusca ha detto che”. In un’epoca di semplificazione, questo argomento forse risulta scomodo, data la sua complessità. Gli aspetti da considerare sono molteplici, e nessuno può dirsi davvero esperto in tal senso, data la trasversalità degli ambiti che intercetta.

E chissà che, come spesso accade, non siano proprio le parole (il dibattito, la discussione, la dissertazione) ad aiutarci a comprendere meglio la complessità della rappresentanza di genere nella nostra lingua.

Le parole veicolano il pensiero

Il tentativo di comprendere quanto le parole siano in grado di veicolare il pensiero costituisce argomento di studio da almeno un secolo, valicando l’aspetto linguistico e sfociando in quello sociale e culturale, o viceversa.

Lo psicologo Lev S. Vygotskij in Pensiero e linguaggio ci ricorda che il legame tra pensiero e parola non è dato a priori, non è fissato una volta per sempre, bensì si costituisce ed evolve nel processo di sviluppo.[5] Ancora una volta l’Accademia, così come le compete, ci tiene a sottolineare che la lingua di per sé non discrimina, non è sessista, ma è docile; e che quindi il genere grammaticale non può e non deve essere accomunato con il genere naturale.

Nella complessità di questo argomento, però, bisogna necessariamente valicare i confini della regola scolastica. Compiuto questo salto, sarà piuttosto chiaro che il vuoto linguistico diventa – o proviene da – un vuoto culturale

Come ricorda la professoressa Elena Marinucci, la lingua che si usa quotidianamente è il mezzo più pervasivo e meno individuato di trasmissione di una visione del mondo

A questo concetto si allaccia anche quello del linguista Francesco Sabatini, per il quale la lingua non è il riflesso dei fatti reali, ma esprime piuttosto la nostra visione dei fatti. Aggiunge però che essa stessa – la lingua –, fissandosi in certe forme, può condizionarne la visione. Questo perché nella lingua non sono depositati intrinseci principi di verità, ma opinioni sedimentate nei secoli all’interno della comunità alla quale si appartiene. Bisogna perciò riconoscere alla lingua il carattere di strumento condizionatore.[6]

Per questo motivo il sistema linguistico di sfondo non può essere inteso solo come un modo per esprimere le idee, ma anche un’opportunità di generarne di nuove. Le impressioni devono essere organizzate nelle nostre menti: questo vuol dire che devono essere organizzate in larga misura dal nostro sistema linguistico o devono essere elaborate ex novo. Così facendo, viene tuttavia meno l’imparzialità alla quale aspiriamo, costretti come siamo in determinati modi di interpretazione.[7]

Non vi è dunque una discriminazione intenzionale; ma da un punto di vista cognitivo più profondo nella mente dei parlanti la lingua non è neutra, costituisce anzi un binario su cui viaggia il pensiero.[8]

Conclusione

Come spesso accade nei testi che trattano l’argomento, anche per questo articolo sarebbe più opportuno parlare di una non-conclusione. Infatti il fine non è tanto quello di giungere a un’argomentazione definitiva, quanto piuttosto quello di far partire o, più onestamente, far continuare una riflessione che spesso si arena in equivoci e incomprensioni.

Parlare di questo importante tema è necessario, non per risolvere la questione da un mero punto di vista formale, ma perché la lingua si sviluppa per sedimentazione e per questo è sempre in ritardo rispetto al principio e allo sviluppo di base

Agli obiettori a oltranza, che lamentano una modifica coatta dall’alto sull’utilizzo o meno di una forma linguistica che sostituisca il maschile sovra-esteso, diamo ragione. Allo stesso tempo chiediamo di lasciare spazio alle alternative che più o meno di recente si stanno affermando, facendole entrare tra loro in competizione e, com’è sempre stato, demandare alla lingua parlata il verdetto dell’uso.

È necessario dibattere, non sentenziare, ma confrontarsi e provare a oltrepassare i limiti intrinseci della nostra lingua (e dunque del nostro pensiero), perché, prendendo in prestito le parole del filosofo austriaco Ludwig Josef Wittgenstein: «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo».[9]

Note e fonti

[1] Benigni R., Troisi M., Non ci resta che piangere (1984), Italia.

[2] Un asterisco sul genere – Consulenza Linguistica – Accademia della Cruscadata di ultima consultazione 1° novembre 2021.

[3] Fresu R., Il gender nella storia linguistica italiana (1988-2008), in «Bollettino di italianistica», n.s., V/1 (2008), pp. 86-111.

[4] Vergoossen H. P. et alii, Are new gender-neutral pronouns difficult to process in reading?The case of hen in Swedish, in «Frontiers in psychology», v. 11, n. 2967, 2020.

[5] Vygotskij L. S., Pensiero e Linguaggio – Ricerche psicologiche (1990), Bari, Laterza, p. 428.

[6] Dalla presentazione e dalla prefazione di Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana (2004), Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[7] Whorf B. L., Language, Thought and Reality (1956), tr. it. di Francesco Ciafaloni, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 169-171.

[8] Cfr. Sabatini A., Il sessismo nella lingua italiana, op. cit.

[9] Cfr. Wittgenstein L., Logisch-Philosophische Abhandlung (1921), tr. it. e introduzione critica di G. C. M. Colombo, Ludwig Wittgenstein: Tractatus Logico Philosophicus, Milano-Roma, Fratelli Bocca, 1954.

Gennaro Rollo

Gennaro Rollo, nato a Napoli il 2 febbraio 1985, è laureato in Chimica e assegnista di ricerca presso l’Istituto di Polimeri del CNR in sede a Lecco. Appassionato di linguistica e dialettologia, ha seguito diversi corsi presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Il serraglio.

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