Il dubbio e la complessità

Intervista a Vera Gheno

Nell’ottica di continuare il percorso intrapreso con l’articolo Dietro il linguaggio,[1] abbiamo voluto contattare Vera Gheno, sociolinguista autrice di diversi testi[2] che mettono al centro l’importanza delle parole. Più in generale, Vera Gheno si distingue per l’approccio sui generis alle novità linguistiche e alle relative sperimentazioni in questo campo. Oltre all’attività accademica presso l’Università di Firenze, dunque, conduce – attraverso i suoi libri (l’ultimo, pubblicato per Einaudi, Le ragioni del dubbio) e i suoi canali social – una campagna quotidiana di educazione alla complessità linguistica e al linguaggio inclusivo. Con lei ci siamo confrontati su vari aspetti sociolinguistici di attualità, dal linguaggio inclusivo al caso dello Union of Equality, ossia il documento interno all’Unione Europea che avrebbe dovuto indicare linee guida per un uso più inclusivo del linguaggio all’interno delle comunicazioni ufficiali.[3]

Cos’è la sociolinguistica? Di cosa si occupa chi studia sociolinguistica?

La sociolinguistica è una branca della linguistica che si occupa non tanto della lingua come sistema a sé, quanto della lingua come emanazione delle persone. Quindi, in sostanza, attraverso le manifestazioni linguistiche delle persone, i sociolinguisti e le sociolinguiste studiano le persone stesse: i movimenti sociali, identitari, culturali, i sub-movimenti, i cambiamenti e via discorrendo.

Sulla scia del linguaggio inclusivo lei propone, tra le alternative esistenti, lo schwa (ə). Come mai le piace così tanto? Con una punta di provocazione le chiedo: con lo schwa non assisteremmo a un unicum all’interno dell’alfabeto italiano, introducendo un simbolo fonetico?

Intanto non è una mia proposta; il volgo però ha bisogno di trovare nomi e cognomi a cui affibbiare le cause. Io ho fatto una considerazione del tutto personale rispetto alla questione dello schwa: ho incontrato una persona che si è manifestata come non binaria, la quale mi ha chiesto un consiglio, poiché nello scritto – non sentendosi a proprio agio nell’usare maschile e femminile – usava l’asterisco. Questo però le poneva il problema fondamentale della pronuncia e quindi chiedeva a me come poter fare. 

A questa persona risposi che avrebbe potuto usare lo schwa, che almeno ha un suono, essendo per l’appunto un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale. Vero è che questo suono non c’è nell’italiano standard, ma c’è in moltissime lingue areali, altrimenti note come dialetti, non solo al Sud. Anche se il campano è l’esempio più evidente, in realtà è presente in molte varietà anche del Nord. Inoltre, essendo presente nelle altre lingue, come il francese e l’inglese, diciamo che tutto sommato è un suono abbastanza comune.

L’uso dello schwa non è mai stato formalizzato da me come proposta. Quello che è successo è che la casa editrice Effequ, per la quale io ho scritto un paio di anni fa Femminili singolari,[4] si è trovata di fronte a un problema traduttivo: dovevano pubblicare Feminismo em comun,[5] tradotto Il contrario della solitudine, manifesto per un femminismo in comune, di Màrcia Tiburi, un’attivista femminista brasiliana. Nel suo libro usa una forma che esiste sia in portoghese sia in spagnolo del Sud America, ossia todas, todostodes. Quest’ultimo termine non esiste secondo la norma di quelle lingue, ma si tratta di un esperimento per cercare un terzo plurale che non sia né maschile né femminile. 

Quindi diciamo che l’esigenza è un po’ la stessa che si sta esplorando in italiano con lo schwaEffequ pensava come tradurre questo todes e alla fine, anche grazie alle discussioni che avevamo in quel periodo, in italiano hanno deciso di usare lo schwa. Quindi nella traduzione si legge tutti, tutte e tuttə. Il simbolo è piaciuto alla casa editrice, anche perché funzionava il relativo impatto sull’aspetto della pagina. Voglio dire, non è un simbolo “alieno” come può esserlo l’asterisco: tiene l’uniformità del testo.

Essendo Effequ molto interessata alla questione di genere (si vede anche dal tipo di saggi che pubblicano), ha deciso di implementare l’uso dello schwa nella collana “Saggi Pop”. Così, dal 2020 in poi, i saggi contenuti in quella collana sono usciti con lo schwa. Naturalmente hanno dovuto redigere una norma redazionale interna, sono stati necessari alcuni ragionamenti su come risolvere alcuni problemi morfologici. Queste norme chiaramente non sono destinate a un largo uso, ma è qualcosa che loro adoperano per essere coerenti strettamente al loro uso interno.

La faccenda, in un paese normale, sarebbe finita qui. In un Paese come l’Italia accade invece questo episodio: a luglio 2020 un giornalista de «La Stampa» pubblica in prima pagina un trafiletto intitolato Allarme siam fascistə.[6] Si tratta di un pezzo di appena venti righe in cui vengono messi in fila una serie di argomenti benaltristi e malpancisti. All’interno di questo articolo vengo definita “Accademica della Crusca” senza peraltro venire citata formalmente. L’Accademia della Crusca ha poi risposto con un comunicato stampa (in cui di nuovo non venivo menzionata direttamente) per prendere le distanze. Salvo aver lavorato venti anni per la Crusca.

A ogni modo, cito l’episodio perché è importante rendersi conto che il largo pubblico ha saputo della questione solo attraverso questo biasquesto pre-giudizio. Questa pre-masticatura negativa, presentata dunque come se fosse una mia imposizione. Poi invece, studiandola, ho scoperto che da almeno una decina di anni, tra le varie soluzioni inclusive nelle comunità LGBTQI+, c’è anche lo schwa.

Una proposta più formalizzata, ma che io non condivido fino in fondo, si trova sul sito italianoinclusivo.it.[7] L’autore del sito è Luca Boschetto, che non è un linguista ma un attivista di settore, che propone lo schwa breve (ə) per il singolare, lo schwa lungo (ɜ) per il plurale. Io questa differenza l’ho scoperta dopo, tant’è vero che la riflessione di Effequ è andata in una direzione completamente diversa perché abbiamo scelto di usare un unico simbolo.

Quindi, pur non avendola proposta, perché mi piace? Fra le varie opzioni di quando non voglio marcare il genere – o quando mi voglio riferire a una persona non binaria –, quindi i vari -u, -x, -*, trattino basso, lo schwa è quella che mi piace di più, ma è una questione personale. Mi piace per il suono, perché è un suono medio, mentre ad esempio -u in molte lingue areali è una marca di maschile. “Buonasera a tuttu” in qualche modo mi sembra più maschile del maschile. Inoltre, lo schwa è un simbolo che si inserisce bene nel testo. Per me ha una sua eleganza.

Detto questo, io sono una linguista e quindi ho ben presente che noi stiamo giochicchiando con la morfologia dell’italiano. Non stiamo parlando di introdurre una parola nuova. Piuttosto si sta parlando di qualcosa che modifica il sistema morfologico dell’italianoho ben presente che sia praticamente impossibile, al momento, che questa cosa vada a sistema. Ma non è un problema, è un esperimento, chi lo usa non ha la minima aspettativa di cambiare le grammatiche e tutto il resto… è noia. Le considero agitazioni mal riposte.

Probabilmente è la Società che deve fare prima un passaggio di maturazione nella comprensione di cosa sia l’identità di genere e anche di cosa sia il sesso biologico. Negli ultimi anni stanno uscendo molti studi che mostrano quanto anche il sesso biologico sia tutt’altro che binario. Veniamo da millenni di prospettiva maschio-femmina e forse quel paradigma sta invecchiando.

Ma prima che ci sia un’accettazione diffusa sul fatto che siamo forse più fluidi di quanto si immagini, ci vorrà del tempo. Così come a lungo l’omosessualità è stata considerata una malattia psicologica e solo poco tempo fa è stata tolta dal grande libro delle patologie psichiatriche.[8] Ma è una cosa recente, quindi non bisogna avere fretta.

Mi fa solo molto sorridere che le persone si preoccupino di perdere qualcosa. Riconoscere una diversità non vuol dire perdere qualcosa. O meglio, potrebbe voler dire perdere dei privilegi, che però non sono meritati ma dati per delle caratteristiche della persona. Come ancora prima avveniva tra le persone con la pelle nera e quelle con la pelle bianca. Che poi anche il concetto di bianco, riferito al colore della pelle, è molto soggettivo, no?

Veniamo adesso al suo ultimo libro, Le ragioni del dubbio,[9] che pone l’accento su tre parole: “dubbio”, “riflessione” e “silenzio”. Come mai ha sentito il bisogno di concentrarsi proprio su queste tre parole?

Tutti i libri che scrivo partono da una necessità personale. Vivo delle esperienze, dei disagi, delle frustrazioni un po’ come tutti e poi cerco una via. Le ragioni del dubbio nasce come esigenza durante la fase del primo lockdown in cui io, come accaduto ad altre persone, sentivo il disagio di non capire cosa stesse succedendo, di fare fatica a capire a chi dare ascolto, come evitare di venire manipolati dalle fake news, come evitare di diffondere a mia volta notizie false, poiché volevamo un po’ tutti tentare di aiutare. Insomma, sentivo prima di tutto io l’esigenza di trovare una strada nella complessità.

L’altra spinta che ho sentito molto forte durante i mesi del lockdown è stata di recuperare una dimensione relazionale, collettiva, che ci veniva tolta dal virus. Stando chiusi in casa era anche difficile sentirsi «parte di un tutto», come diceva John Donne nel 1600.[10] Ho riflettuto su quanto si sentiva spesso dire, ovvero che ne saremmo usciti insieme, che bisognava ricordarsi che siamo parte di un tutto per uscire dalla pandemia.

Ecco, tutte queste sollecitazioni più o meno dirette mi hanno portato a cercare di condensare la strada in una serie di parole chiave, che sono appunto “dubbio”, riflessione” e silenzioIl dubbio riguarda il momento in cui dobbiamo trovare una strada fra quello che ci arriva addosso, quindi rispetto all’infodemia. Anzitutto dobbiamo dubitare di noi stessisapere di non sapere, socraticamente parlando: se non dubitiamo di quello che sappiamo non creiamo posto per sapere di più. Tra l’altro, se una persona non ha dubbi rispetto a quello che pensa di sapere finisce per dubitare troppo degli altri e quindi non dare retta a chi manifestamente ne sa di più.

Si dubita dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, si dubita di tutto il sistema che porta a vaccinarsi. Spesso cito il caso di Nicki Minaj[11] che non è andata al ballo del Metropolitan Museum, e ha condiviso una serie di tweet abbastanza deliranti in cui diceva di voler effettuare delle ricerche personali prima di vaccinarsi.

Forse in quel caso, non avendo lei studiato il processo di creazione dei vaccini, avrebbe potuto affidarsi a una comunità di esperti. Diciamo perciò che dubitare è un po’ l’alfa e l’omega di tutto.

Dopo di che il termine “riflessione” l’ho identificato come parola chiave nel momento in cui si crea comunicazione, quindi come evitare di cascare in tranelli e finire per dare spazio a una notizia falsa e distorta come quella dell’U.E. che vieta il Natale. Se in prima battuta si fosse dubitato di quanto letto e ci si fosse chiesto quali siano state le dichiarazioni dell’Unione Europea, si sarebbero evitati articoli su articoli o post indignati senza fondamento.

Infine il “silenzio” semplicemente significa che se non hai nulla di interessante da dire, taci. È sempre una buona regola, secondo me.

In realtà Le ragioni del dubbio nasconde altre due parole, e forse anche una terza sotto la quale si struttura tutto il libro. La prima è “comunicare”, che troviamo nell’introduzione, la seconda è “fatica”. Il grande cappello però sembra essere il termine “complessità”. Oltre a queste, c’è qualche altra parola che ultimamente potrebbe integrare questo suo lavoro?

Secondo me “comunicare” e “fatica” sono la stessa cosa. “Comunicare” vuol dire mettere in comune: porta all’idea del collaborare verso qualcosa che giovi a tutte le persone che prendano parte a un evento collettivo

“Fatica” non fa che sottolineare il fatto che per reggere in un mondo di complessità crescente, sia cognitiva sia sociale, bisogna investire sulla comunicazione e rendersi conto che si tratta di qualcosa di impegnativo dal punto di vista sociale, culturale e organizzativo. Troppo spesso invece si pensa che comunicare non debba essere faticoso. Un po’ come le relazioni, l’amore. C’è la scuola di pensiero che dice “se è faticoso bisogna mollare”, perché la relazione non deve essere uno stress. C’è invece la scuola che dice che mandare avanti un rapporto è anche un lavoro, bisogna impegnarsi nel quotidiano, crescere insieme, oppure eventualmente capire che non va, ma non senza una componente – prima – di impegno e fatica.

Ci sarebbero tantissime parole da aggiungere, ma non in questo libro. Ogni libro è una tappa per me, è una sorta di merenda per saziare la fame di un certo momento, ma poi vado oltre. Le ragioni del dubbio, pur essendo importante, resta una tappa intermedia e quindi, nel caso, saranno altri i libri da scrivere. A quel punto userei altre parole chiave, ad esempio “Altro”, nel senso di “altra persona”, di “alterità”, xenos; userei la parola “Futuro”, che è quello che la pandemia ci ha un po’ tolto; e userei una qualche combinazione di queste due parole, poiché credo che il futuro della nostra Società sia quello di prendere atto dell’alterità e della relatività del nostro punto di vista.

A proposito di prendere atto dell’alterità, in questi giorni si è parlato delle linee guida interne all’Unione Europea, lo Unit of Equality, per provare a comunicare nel modo più inclusivo possibile. A fronte di una strumentalizzazione tristemente italiana questo documento è stato ritirato dall’U.E.[12] Pensa si debba insistere da questo punto vista?

Le linee guida erano interne agli uffici dell’Unione Europea, non erano destinate al largo pubblico. Chiunque si occupi di comunicazione sa che c’è una grossa differenza tra le comunicazioni riferite all’interno di un ambiente e le comunicazioni destinate al largo pubblico. Questo documento interno era destinato a uffici in cui la convivenza con l’alterità è norma.

Detto questo, c’è un problema enorme che noi abbiamo in Italia e sono media che non fanno i media, che invece di andare a ricercare le fonti primarie si attaccano tra di loro, probabilmente solo in cerca di click, perché le persone non hanno voglia di pagare per leggere notizie: sanno che il più delle volte troveranno immondizia.

Quando ho letto la notizia L’Europa vieta il Natale[13] ho pensato due cose. In primo luogo: chi è l’incosciente che ha messo in giro una notizia del genere? e, in secondo luogo: cosa avrà detto veramente l’Unione Europea?

Dai pochi screenshot che circolano del documento ufficiale, da nessuna parte c’è scritto che è vietato il Natale. C’è scritto di considerare che non tutte le persone intorno a te festeggiano il Natale e dunque è necessario chiedersi se, invece di scrivere “Merry Christmas”, sia il caso piuttosto di scrivere “Sweet Season”. 

Come da questo concetto si possa, in mala fede, scrivere che l’U.E. ha vietato il Natale, francamente sfugge alla mia comprensione. La catena è partita da testate dichiaratamente di destra, dopo di che si è allargata fino ad arrivare a quotidiani come «Avvenire», con cui non condivido sempre la posizione, ma che fa un buon lavoro di giornalismo.

L’altro consiglio era di evitare la dicitura “christian name”, preferendo “first name”. È bene ricordare che “christian name” non vuol dire “nome cristiano”, bensì “nome di battesimo”. Siccome non tutte le persone sono battezzate, usare quella dicitura può essere sgradevole per alcuni.

Ancora: sghignazzate sull’evitare il termine “colonizzazione”. L’esempio riportato dall’U.E., proprio per non offendere nessuna popolazione terrestre, è la colonizzazione di Marte, preferendo invece la dicitura “insediamenti umani”. Ahimè, c’è una buona parte della popolazione terrestre che ha subito la colonizzazione, che a sentire questo termine ripensa ai bianchi che arrivano e ti trucidano, ti costringono a convertirti, ti sottraggono i figli – come accaduto in Australia, dove c’è un’intera generazione di aborigeni chiamata stolen generation[14] in cui i figli sottratti venivano educati alla cultura europea con l’idea di integrarli nelle comunità aborigene per occidentalizzarle. Questa è la colonizzazione.

Può essere lecito allora che questo termine sia fastidioso per una parte della popolazione? La reazione che si è vista in Italia è perciò stupida, ombelicale, autocentrata, incapace di capire che anche il nostro punto di vista di bianchi occidentali è relativo. Francamente però non me la sento di incolpare le persone, qui la colpa è dei media che rinunciano al loro lavoro di dare le notizie invece di solleticare la pancia delle persone.

Io capisco che ci siano anche persone spaventate. Noi esseri umani non siamo programmati per amare l’alterità e vederla come una risorsa; ma che giornali, portavoce, politici cavalchino questa paura è davvero indegno.

Sembra esserci uno squilibrio però tra il suo impegno e di altri suoi colleghi, che in qualche modo spinge verso la complessità, e l'intento di alcune figure che spingono verso una banalizzazione dei concetti, un modo per accomodare il facile pensiero binario bianco-nero, invece di considerare la sfumatura. Cosa si può fare su larga scala per contrastare questo fenomeno sociale e comunicativo?

Manipolatori e manipolatrici esisteranno sempre, quello su cui bisogna lavorare è l’istruzione di base, l’educazione alla complessità, per l’appunto, a partire dai primi ordini scolastici, dai bambini. Si può anche agire sugli adulti: in alcune aziende si effettuano corsi appositi, anche se è un po’ più difficile riportare gli adulti sui banchi di scuola. Però ce n’è bisogno, perché se da una parte non si può eliminare chi manipola, dall’altra aspiro a individui che abbiano più anticorpi rispetto a questo tipo di comunicazione e quindi che venga rigettata. Non credo sia uno sforzo sprecato.

Commento dell'Autore a margine dell'intervista

I temi trattati all’interno dell’intervista a Vera Gheno aggiungono una serie di tasselli importanti al percorso di comprensione della complessità culturale, politica e sociale che si cela dietro le parole

Come si evince, gli esperimenti per un linguaggio inclusivo hanno solo in parte a che fare con la reale volontà – o meglio la reale aspettativa – di cambiare la grammatica italiana. Piuttosto costituiscono un valido pretesto per affrontare a diversi livelli (divulgativo, pratico, accademico) il tema dell’alterità.

Occorre impegno per superare la naturale tendenza alla catalogazione secondo il pensiero binario bianco-nero. In un mondo a complessità crescente, si avverte l’esigenza di sforzarsi per vedere e considerare quante più sfumature possibili.

Educazione e istruzione sono gli strumenti minimi e indispensabili per una lettura critica della realtà che ci circonda, al fine di non essere prede, vittime e in parte responsabili di una comunicazione che più che semplificare banalizza. Poiché, chiudendo con una frase di Vera Gheno, «semplicemente, comunicare meglio, a mio avviso, fa vivere meglio».[15]

Note

[1] Cfr. Rollo G., Dietro il linguaggio – Gennaro Rollo | Articoli e Saggi – VIA Vivere in Alto, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[2] Citiamo, tra gli altri, Gheno V., Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi), Firenze, Cesati, 2016; Gheno V. e Mastroianni B., Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Milano, Longanesi, 2018; Gheno V., Potere alle parole. Perché usarle meglio, Torino, Einaudi, 2019; e il più recente Gheno V., Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Torino, Einaudi, 2021.

[3] Ue, polemiche sulla Commissione per la comunicazione “inclusiva”: via i riferimenti a “Natale”, tolta distinzione fra “Miss” e “Mrs” – Il Fatto Quotidiano, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[4] Gheno V., Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Roma, Effequ, 2019.

[5] Tiburi M., Feminismo em comum: Para todas, todes e todos, tr. it. di Del Giudice E., Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, Roma, Effequ, 2020.

[6] Allarmi siam fascistə – La Stampadata di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[7] Come si scrive – Italiano Inclusivo, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[8] La scheda – Perché si celebra la giornata mondiale contro l’omofobia – Rai News, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[9] Gheno V., Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Torino, Einaudi, 2021.

[10] Donne J., Meditazione XVII in Devozioni per occasioni d’emergenza, Roma, Editori Riuniti, 1994, pp. 112 e 113.

[11] Cfr. https://twitter.com/NICKIMINAJ/status/1437526877808128000, data di ultima consultazione 2 dicembre 2021.

[12] L’Ue ritira le linee sulla comunicazione dopo le polemiche – Europa – ANSA.it, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[13] L’Europa vieta il Natale. “Buon Santo Natale da Maria e Giuseppe” letterona di auguri di risposta – Il Tempo, data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[14] Trauma of Australia’s Indigenous ‘Stolen Generations’ is still affecting children today (nature.com)data di ultima consultazione 4 dicembre 2021.

[15] Cfr. Gheno V., Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, op. cit.

Gennaro Rollo

Gennaro Rollo, nato a Napoli il 2 febbraio 1985, è laureato in Chimica e assegnista di ricerca presso l’Istituto di Polimeri del CNR in sede a Lecco. Appassionato di linguistica e dialettologia, ha seguito diversi corsi presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Il serraglio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *