mimèsi delle passioni

La mimèsi delle passioni: Policleto secondo Senofonte

6 πρὸς δὲ Κλείτωνα τὸν ἀνδριαντοποιόν εἰσελθών ποτε καὶ διαλεγόμενος αὐτῷ· ὅτι μὲν, ἔφη, ὦ Κλείτων, καλοὶ οὕς ποιεῖς δρομέας τε καὶ παλαιστὰς καὶ πύκτας καὶ παγρατιαστάς, ὁρῶ τε καὶ οἶδα, ὃ δὲ μάλιστα ψυχαγωγεῖ διὰ τῆς ὄψεως τοὺς ἀνθρώπους, τὸ ζωτικὸν φαίνεσθαι· πῶς τοῦτο ἐνεργάζει τοἰς ἀνδριᾶσιν; 7 ἐπεὶ δὲ ἀπορῶν ὁ Κλείτων οὐ ταχὺ ἀπεκρίνατο· ἆρ’, ἔφη, τοῖς τῶν ζώντων εἴδεσιν ἀπεικάζων τὸ ἔργον ζωτικωτέρους ποιεῖς φαίνεσθαι τοὺς ἀνδριάντας; καὶ μάλα, ἔφη. οὐκοῦν τά τε ὑπὸ τῶν σχημάτων κατασπώμενα καὶ τὰ ἀνασπώμενα ἐν τοῖς σώμασι καὶ τὰ συμπιεζόμενα καὶ τὰ διελκόμενα, καὶ τὰ ἐντεινόμενα καὶ τὰ ἀνιέμενα ἀπεικάζων ὁμοιότερά τε τοῖς ἀληθινοῖς καὶ πιθανώτερα ποιεῖς φαινέσθαι; πάνυ μὲν οὖν, ἔφη.

8 τὸ δὲ καὶ τὰ πάθη τῶν ποιούντων τι σωμάτων ἀπομιμεῖσθαι οὐ ποιεῖ τινα τέρψιν τοῖς θεωμένοις; εἰκὸς γοῦν, ἔφη. οὐκοῦν καὶ τῶν μὲν μαχομένων ἀπειλητικὰ τὰ ὄμματα ἀπεικαστέον, τῶν δὲ νενικηκότων εὐφραινομένων ἡ ὄφις μιμητέα; σφόδρα γε, ἔφη. δεῖ ἄρα, ἔφη, τὸν ἀνδριαντοποιὸν τὰ τῆς ψυχῆς πάθη τῷ εἴδει προσεικάζειν.

 

 

6 Essendosi presentato una volta da Kleiton, lo scultore, e parlando con lui, disse: «Vedo e so che belli sono i corridori, i lottatori, i pancraziasti e i pugili che tu fai, ma quello che soprattutto attira gli uomini attraverso la vista, quell’apparire come vivi, in che modo, questo, lo realizzi nelle statue?». E poiché Kleiton, quasi in difficoltà, non rispondeva subito, riprese: «Forse confrontando la tua opera con l’aspetto degli esseri viventi, tu fai apparire le statue più vive?». «Proprio così» rispose. «Non è forse vero che, ritraendo le parti che nei corpi sono le depressioni delle posture e quelle che ne sono le sporgenze, e inoltre le parti compresse e le distese, le tese e le rilassate, fai apparire i corpi sia più simili a quelli reali sia più credibili?[1]». «Proprio così» rispose.

8 «Ma imitare anche i sentimenti dei corpi che fanno qualcosa, non crea un certo godimento a quelli che guardano?». «Certo, è naturale» disse. «Dunque devono raffigurarsi gli occhi dei combattenti minacciosi, mentre si deve rendere l’aspetto dei vincitori come lieto?». «Proprio così» rispose. «Bisogna dunque» disse, «che lo scultore rappresenti le passioni dell’anima assimilandole all’aspetto».

 

Senofonte, Memorabilia, III 10, 6-8[2]

Introduzione

Questo passo di Senofonte (V-IV secolo a.C.) è solitamente considerato parte di una conversazione, forse fittizia, svoltasi ad Atene tra Socrate e uno scultore. Il dialogo fra i due si incentra sul concetto di mimèsi, tanto caro alla cultura greca. Il rapporto tra scultura e mimèsi, le accezioni letterarie (omeriche in primis) e filosofiche di quest’ultima (socratiche, platoniche e aristoteliche) porteranno alla sua applicazione artistica, alla volontà cioè, da parte dello scultore, di raffigurare le passioni umane.

Lo scultore in questione viene riconosciuto in Policleto, interpretando il nome Κλείτων (Kleiton) come diminutivo di Πολύκλειτος (Policleto). Altri lo identificano in Clitone, personaggio diverso, altrimenti ignoto,[3] a differenza del precedente interlocutore di Socrate, il celebre pittore Parrasio, attivo soprattutto ad Atene tra il 440 e il 385 a.C.

A sostegno della prima tesi, si può ricordare che effettivamente Policleto di Argo (o di Sicione) già operava nel Peloponneso a partire dal 465 a.C. Autore principalmente di statue per i vincitori dei giochi olimpici e del celebre Canone, dovette trasferirsi ad Atene tra il 440 e il 430 a.C. Qui incontrò Fidia e i due scultori si influenzarono a vicenda. Al periodo ateniese risale il concorso, datato da Plinio al 435 a.C. circa (Nat. Hist. XXXIV 53), per le statue delle Amazzoni da dedicare nel tempio di Artemide a Efeso. Policleto vi avrebbe partecipato insieme a Fidia, Cresila e altri due scultori.

Un ulteriore elemento cronologico di conferma può essere ricavato proprio dal nostro dialogo, che vede il filosofo ateniese come principale interlocutore. Secondo l’opinione antica, Socrate stesso aveva imparato l’arte scultorea da suo padre Sofronisco. A tal proposito Pausania (I 22, 8) riporta la notizia, inattendibile ma significativa, di aver visto sull’Acropoli, ancora ai suoi tempi, un gruppo statuario raffigurante le Grazie che sarebbe stato realizzato proprio dal filosofo.[4]

Questa sua realizzazione artistica spiegherebbe più verosimilmente l’interesse del filosofo per le tecniche espressive delle arti figurative,[5] sempre che proprio a partire da questo interesse non sia stata desunta la notizia sul lavoro del padre. D’altronde, se Socrate si era dedicato alla scultura e rivendicava Dedalo come antenato (Pl., Alc. 121a, Euth. 116), gli antichi biografi (Diogene Laerzio, Apuleio e più tardi Olimpiodoro) ci dicono che Platone nella sua giovinezza si era occupato non solo di poesia, ma anche di pittura.[6] Verosimilmente, entrambi frequentarono artisti.

 Scultura mimetica: Socrate

Già dalle prime parole pronunciate da Socrate nel nostro passo emerge in maniera evidente la teorizzazione della μίμησις (mimesis). Il verbo ψυχαγωγεῖ (psychagoghei), per esempio, e il relativo concetto della ψυχαγωγία (psychagoghia), così frequenti in Platone, Isocrate e Aristotele, risalgono, nella loro accezione tecnica, a Gorgia, che li avrebbe utilizzati per indicare l’effetto di fascinazione operato dall’arte oratoria e dalla poesia

Da questa concezione di τέχνη (techne) retorica teorizzata dal sofista, in base alla quale l’oratore deve distinguere le varie anime e i diversi tipi di discorso per poterle adattare perfettamente le une agli altri, deriverebbe la teoria di un’esigenza dell’artista di saper rappresentare i differenti caratteri e le passioni. Anche nelle arti figurative, infatti, come spiega Senofonte grazie alle parole di Socrate, ciò che soprattutto attira gli uomini attraverso la vista è quell’apparire come vivi.

Socrate ha già condotto il pittore Parrasio (§3), che inizialmente negava la possibilità di una rappresentazione mimetica dell’ἦθος (ethos), ad ammettere questa fondamentale evenienza.[7] L’artista, infatti, impersona ancora la visione conservativa della raffigurazione delle emozioni, mentre il filosofo esprime il nuovo pensiero che si afferma fra il V e il IV secolo a.C., nel quale la resa scultorea e pittorica dei πάθη (pathe) diviene particolarmente rilevante.

La pittura, grazie al processo di imitazione, ha il compito di creare “una sembianza delle cose visibili”, perciò Socrate domanda se sia possibile per un artista imitare anche le passioni dell’anima, impossibile per Parrasio poiché l’anima non possiede né simmetria, né colore, né alcuno dei caratteri visibili. Il filosofo, dunque, ribatte che l’anima può essere rappresentata attraverso il viso e le posizioni del corpo, e il pittore a questo punto è costretto ad assentire.[8]

Il terzo e ultimo interlocutore di Socrate, Pistia, non ci è noto da altre fonti. Può risultare curioso che un fabbricante di corazze sia accomunato a un pittore e a uno scultore. Ma bisogna tener presente che l’ovvia distinzione tra artista e artigiano è un prodotto dell’età moderna. Nell’Antichità, nel Medioevo e ancora nel primo Rinascimento, nelle botteghe si realizzavano contemporaneamente opere d’arte e oggetti di uso comune. Emerge però un’importante differenza nel corso del dialogo tra Socrate e Pistia. Per le pitture di Parrasio e per le sculture di Clitone-Policleto il problema centrale è quello della μίμησις. E tali opere risultano tanto più belle quanto più adiacenti all’aspetto esteriore dei corpi e alle emozioni dei personaggi. Nel caso delle corazze di Pistia, la bellezza consiste invece nella loro funzionalità.[9]

Nella sezione proposta del dialogo, Socrate è interessato alla realizzazione della μίμησις nelle statue. Nella sua domanda il verbo ἐνεργάζει (energazei) rimanda al concetto chiave dell’ἐνέργεια (energheia) che nella filosofia aristotelica è definita come esercizio di un’attività correlata dalla δύναμις (dynamis: capacità di compiere un’attività), ma da essa ben distinta. Siccome anche lo scultore, come precedentemente Parrasio, tentenna, è Socrate stesso a esporre la teoria della μίμησις. Forse, confrontando (ἀπεικάζων: apeikazon) l’opera con l’aspetto degli esseri viventi, si rendono le statue più vive? Ritraendo (ἀπεικάζων) le singole parti del corpo, quelle cave e quelle sporgenti, tese e rilassate, si rendono i corpi più verosimili?

La ripetizione del verbo “platonico” ἀπεικάζω (apeikazo) traducibile qui con accezioni diverse, mette in luce l’ambiguità del concetto. Mίμησις significa non solo imitare (Plat., Rep. X) e impersonare (Plat., Rep. III), ma anche rappresentare e produrre un nuovo oggetto simile a quello della realtà. Il termine non ha una definizione stabilita, ma può assumere molte sfumature, che si manifestano soprattutto nell’uso classico del concetto, in Platone e Aristotele.[10]

Il verbo ἀπομιμεῖσθαι (apomimeisthai), invece, sposta il discorso imitativo sul piano dei πάθη. Non solo la rappresentazione dell’aspetto degli esseri viventi, ma soprattutto delle passioni dell’anima fa sì che le statue appaiano come vive. Non a caso gli occhi assumono tutto d’un tratto un’importanza eccezionale nella scultura del IV secolo a.C. Novità che riscontriamo negli sguardi angosciati di Skopas o in quelli languidi di Prassitele.

 Poesia mimetica: Platone e Aristotele

L‘evidente progressione verso il naturalismo è stata interpretata non come elemento caratterizzante, ma proprio come scopo fondante dell’arte greca.[11] Ed è questa resa dettagliata degli occhi, dei capelli, dei muscoli, e soprattutto del sentimento e dell’intenzione del personaggio a creare godimento in chi ammira l’opera.

Tale questione è sottolineata anche da Aristotele (Poet. 4, 1448b4-24), nell’individuare le due cause che hanno originato la poesia: l’istinto di imitazione, naturale per tutti gli uomini fin dalla fanciullezza, e il graduale perfezionamento di coloro che erano già predisposti all’armonia e al ritmo. Ciò che in natura non possiamo guardare senza disgusto, come gli animali mostruosi o i cadaveri, se lo contempliamo in una riproduzione artistica, ci reca diletto. Ciò deriva dalla curiosità di scoprire che cosa ogni immagine rappresenti, come per esempio il riconoscere il soggetto di un ritratto grazie all’esattezza dell’esecuzione e del colorito. 

Diversa opinione aveva espresso Platone (Rep. X 604-606d), muovendo alla poesia l’accusa per lui più grave: guastare anche gli uomini più equilibrati. Egli adduce l’esempio delle rappresentazioni dei lutti, dei piaceri amorosi e dell’ira. Gli eroi di Omero, o di qualche altro poeta tragico, imitano gemiti, si battono il petto, cantano con trasporto. Ma, quando ci capita un dolore personale, ci vantiamo del contrario, cioè di saper mantenere la calma e la forza d’animo. Gli imitatori soddisfano proprio quello sfogo del sentimento che nelle disgrazie personali viene trattenuto. Perciò poeta e pittore creano opere scadenti, oltre che prive di valore veritativo, in quanto simulazioni di una simulazione, lontana dal mondo delle idee.

La conclusione del nostro passo senofonteo è perfettamente in linea con l’evoluzione della scultura, tendente a sottolineare il πάθος. Ma sembra porre in secondo piano il rapporto tra l’opera d’arte e il piano etico, che invece rimaneva preponderante nel dialogo con Parrasio. Questo carattere “minaccioso” della μίμησις è stato definito «pre-etico».[12]

Il principio aristotelico (Poet. II 2, 1448a1-6) secondo il quale gli imitatori, cioè i poeti, non  possono che imitare uomini nobili o ignobili, rispettivamente nella tragedia e nella commedia, varrebbe anche per i pittori. Polignoto, per esempio, raffigurò esseri migliori, Pausone peggiori.  Pollitt, nella sezione di The Ancient View of Greek Art dedicata espressamente alla mimèsi, mette in evidenza come la comprensione delle sfaccettate connotazioni che assume il termine sia essenziale per comprendere il ruolo assegnato all’arte dalla filosofia classica e l’influenza reciproca fra le due scienze

Inoltre, la precisazione compiuta da Socrate («sia più simili a quelli reali sia più credibili») allude già a un concetto precoce di μίμησις selettiva che sarà predominante nei secoli successivi. Aristotele (Poet. 15, 1454b8-11), infatti, specifica che, essendo la tragedia mimèsi di persone superiori al livello comune, è bene che i poeti seguano l’esempio dei buoni pittori, i quali, riproducendo le fattezze di un individuo, ne realizzano un ritratto che, senza venir meno alla somiglianza, deve essere più bello dell’originale.

L’arte mimetica secondo Aristotele (Poet. 25, 1460b8-12) può assumere tre gradi di “intensità”. O si imitano le cose come furono o sono, o come si dice e si crede che siano, o come dovrebbero essere. Policleto, Polignoto e in genere gli artisti e i poeti del V secolo a.C., si sono fermati al primo grado. Aristotele riporta come esempio di poeta “mimetico” Euripide. Il secondo stadio è quello di Lisippo, la cui espressione quales viderentur esse, riferita da Plinio (Nat. Hist. XXXIV 6), sarà fraintesa non poco in epoche successive.[13] Al terzo livello, secondo Aristotele, è giunto soltanto Sofocle.

Completamente su un altro piano si era posto Platone, fornendo un senso astratto al termine μίμησις ed espandendone notevolmente il significato. Egli condanna la poesia poiché fondata sull’imitazione, e riconosce, anche se a malincuore, il capostipite degli imitatori in Omero (Rep. II 376e-378b). Nel Libro X della Repubblica,[14] Socrate chiede al suo interlocutore Glaucone di spiegargli in che cosa consista l’imitazione. Per condurlo alla risposta, prende ad esempio l’idea di letto. Tre sono le tipologie di tale oggetto. Il letto che esiste come idea, opera di un dio, quello costruito dal falegname e quello rappresentato dal pittore.

I primi vanno considerati artefici, l’uno dell’idea, l’altro dell’oggetto, che già appartiene al secondo grado di verità; il terzo invece, è definito «imitatore dell’oggetto di cui gli altri due sono artefici». Inoltre, è specificato che la pittura non imita l’idea dell’oggetto, ma il prodotto dell’artigiano, e non come esso è in realtà, ma come appare (Rep. X 598a). Anche misurando, pesando e contando, l’anima può ricevere impressioni diverse sui medesimi oggetti

Perciò la pittura, e in generale l’arte dell’imitazione, realizzando solo la parvenza di ogni oggetto, è lontana dal vero. L’imitatore, poeta o pittore, a partire da Omero, esperto solo di imitazione, è pessimo conoscitore della verità, distante da essa di tre gradi, esecutore «of images of excellence», per citare Platone con Janaway. Un μίμημα (mimema) è solo il risultato della μίμησις, una copia, non anche il processo che la produce; esso, quindi, non genera la conoscenza dell’oggetto o dell’azione di partenza, come ritenevano i Sofisti.[15]

Questa è una condanna sociale e culturale dell’arte in quanto tale, considerata arretrata rispetto al rigore della scienza, perché basata ancora sulla memoria. Ciò apre la via a una moderna valutazione, più concreta di quella estetica, in cerca di qualcosa di più del semplice gioco fittizio.[16] Una valutazione positiva è possibile per Platone solo in prospettiva di uno strumento di comunicazione valido per gli uomini: se si imitano le qualità delle cose, non si tratta più di linguaggio, ma di musica e pittura (Crat. 423b-c).[17]

Per lungo tempo Aristofane è stato visto come il precursore di Platone nella critica moralistica della poesia, ma il commediografo attribuisce al termine μίμησις il significato tecnico di “rappresentazione teatrale”, a cui aggiunge un valore negativo di occultamento della natura. La prima attestazione del lemma nel contesto di una discussione poetica è nelle Tesmoforiazuse (vv. 155-156): «quando un attore non possiede per natura ciò che lo rende conforme al personaggio, può rimediare alla carenza attraverso la mimèsi».[18]

Mimèsi omerica

Il concetto di μίμησις non pare un frutto originale del V/IV secolo a.C. Cerri nella sua Introduzione (L’Ira di Achille: una Metamorfosi) all’analisi del Libro XVIII dell’Iliade attribuisce all’episodio finale, la descrizione dello scudo di Achille, il primato della teorizzazione di una μίμησις artistica, intesa aristotelicamente come «imitazione selettiva del reale».

Nei poemi omerici si trovano varie descrizioni di oggetti artigianali di pregio: la famosa coppa di Nestore (Il. II 632-367), il talamo di Odisseo e Penelope (Od. XXIII 184-201), l’egida di Zeus (Il. V 738-742). Nonché descrizioni di scudi, come quello di Agamennone (Il. II 32-40), decorato con la testa della Gorgone, elemento ricorrente sugli scudi reali.

A differenza di questi brevi passi, quello dello Scudo di Achille (Il. XVIII 478- 608) occupa ben 130 versi, costituendo, in primis, un episodio dotato di una relativa autonomia e perciò perfettamente funzionale a Cerri per avvalorare la sua tesi di una composizione del poema progressiva, con interventi retroattivi, tra il secolo VIII e il VI. Così, l’episodio dello Scudo di Achille sarebbe un’elaborazione tardo-arcaica, proprio sulla base del concetto operante di μίμησις che l’autore vi individua.

In secondo luogo, questa lunghezza è dovuta a una diversa natura dell’oggetto descritto. Esso non rappresenta un’unica immagine, ma un vero e proprio programma figurativo, articolato in una lunga serie di quadri: un «polittico», per usare la definizione di Cerri, e un prototipo, in quanto prima descrizione epica di un programma figurativo. Sull’esempio omerico e poi virgiliano, ovvero la descrizione dello scudo forgiato da Efesto su richiesta di Afrodite per il figlio Enea (Aen.VIII, 626-731), la digressione sullo scudo dell’eroe diverrà topos quasi obbligatorio del poema epico, nell’Antichità e nelle epoche successive.

I primi cinque versi del passo dello scudo (vv. 478-482) sono dedicati alla descrizione della struttura portante dell’oggetto, alla sua fabbricazione come parte dell’armatura. Per passare dal v. 483 alla decorazione figurativa sulla superficie esterna:[19] scene cosmiche (la terra, il cielo,  il mare e il fiume Oceano; il sole, la luna e tutte le costellazioni), una città che vive in pace e una assediata, immagini di coltivazione e di pastorizia, e infine una pista da ballo.

Significativamente lo Scudo di Achille è l’unico episodio iliadico che porta alla ribalta esperienze di vita quotidiana, altrimenti relegate sullo sfondo o al ruolo secondario di termine di paragone. Le scene sono presentate non come prodotto finito, ma nel loro nascere sotto le mani del dio orafo, di cui viene spesso sottolineata l’abilità artistica con la quale usa gli strumenti e soprattutto i colori. Emerge qui, più che in qualunque altro luogo omerico, grazie ai termini tipici, l’idea dell’arte figurativa come tecnica complessa di «imitazione selettiva del reale», μίμησις appunto, anche se il termine doveva essere ancora ignoto a Omero.[20]

Cerri conclude la sua riflessione sulla μίμησις creando un parallelismo tra tutto ciò che viene detto esplicitamente dell’arte del dio e ciò che, implicitamente, è da riferire anche alla stessa icastica creazione poetica di Omero. Tale aspetto, a suo parere poco valorizzato dalla critica, è riscontrabile nelle famose parole di Simonide di Ceo (riportate da Plut., De gloria Ath. 346f) che, nell’esprimersi in tal modo, pensava forse proprio allo Scudo di Achille: «la pittura è poesia silenziosa, mentre la poesia è pittura parlante».

Note

[1] Senofonte, Memorabilia, ed. a cura di Hude C., Leipzig 1934.

[2] Ci discostiamo dalla traduzione «più attraenti» proposta da Franciosi V., Il “Doriforo” di Policleto, Napoli, Jovene Editore, 2003, preferendo rendere πιθανώτερα con «più credibili».

[3] Santoni A., Introduzione, traduzione e note, Senofonte, Memorabili, Milano, Rizzoli, 1989, p. 279.

[4] Maffei S., Luciano di Samosata, Descrizioni di opere d’arte, Torino, Einaudi Editore 1994, p. XXVI: opera in realtà dell’omonimo scultore di Tebe.

[5] Fougères 1923, pp. 41 e 42: rivede in Socrate l’ombra di un “imbrattatele” morto giovane.

[6] Schuhl P. M., Platone e le arti figurative, a cura di Benassi S., Bologna, Book Editore, 1994, p. 68.

[7] Bevilacqua F. (a cura di), Memorabili di Senofonte, Torino, Utet, 2010, pp. 58-59.

[8] Pollitt J. J., The Ancient View of Greek Art: Criticism, History, and Terminology, Londra, Yale Russian and East European, 1974, pp. 30 e 31.

[9]  Bevilacqua F. (a cura di), op. cit., pp. 560 e 561.

[10] Wulf C., Mimesis, L’arte e i suoi modelli, Berlino, I cabiri, 1989, p. 10.

[11] Pollitt J. J., The Ancient View of Greek Art: Criticism, History, and Terminology, Londra, Yale Russian and East European, 1974, p. 6.

[12] Wulf C., op.cit., 1989, p. 13.

[13] Schlosser Magnino J., La letteratura artistica (1935), Firenze, La nuova Italia Editrice, 1964, p. 689: si allude al fraintendimento della teoria artistica del Barocco che si propone di rappresentare l’uomo non come è, ma come dovrebbe essere, ritenendo la natura meschina e passibile di correzioni; e  invece all’interpretazione letterale del Bernini che, senza rivisitare Lisippo, mirerà al solo fatto artistico.

[14] Per l’analisi del passo platonico di condanna alla poesia come mimèsi, molto rilevante la ripartizione in tredici momenti dimostrativi compiuta da Havelock nel 1963 (pp. 238 e 239).

[15] SEP, Stanford Encyclopedia of Philosophy: Plato’s Aesthetics, 2008.

[16] Janaway C., Images of Excellence, Plato’s critique of the arts, Oxford, Clarendon Press, 1995: rivaluta la condanna platonica dell’arte.

[17] Plebe A. (a cura di), Il pensiero estetico. Platone, Bari, Laterza, 1965, pp. 5-14: i passi citati della Repubblica e del Cratilo avviano l’analisi di confronto tra le condanne artistiche di Platone e di Hegel.

[18] Aristofane, Tesmoforiazuse, 411 a.C., vv. 155 e 156.

[19] Cerri G. (a cura di), Omero. Iliade. Libro XVIII: Lo scudo di Achille. Introduzione, traduzione e commento, Roma, Carocci , 2010, pp. 161-208.

[20]  Cerri sottolinea come il concetto di mimèsi aristotelica emerga nell’Iliade solo in questi versi dedicati allo Scudo, mentre Becker (1995) riconosce nel principio mimetico operante in questa descrizione un collegamento tra mimèsi verbale e mimèsi iconografica, attivo, forse in minor misura, anche in altre parti del poema.

Giorgia Angelica Chatzidakis

Giorgia, nata a Bologna nel 1995, ha conseguito la Laurea Triennale in Lettere Classiche e quella Magistrale in Beni archeologici presso l’Università di Bologna. Dopo un tirocinio alla Scuola archeologica italiana di Atene, prosegue gli studi alla Specializzazione di Bologna. Appassionata di turismo archeologico e artistico, da più di un anno si occupa di editing per una rivista culturale.

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