lentezza

Breve storia della lentezza

Dal significato etimologico all'accezione moderna

Introduzione

Lo diciamo spesso: corriamo troppo. La velocità è diventata parte integrante della nostra quotidianità, un requisito per avvalorare il nostro curriculum vitae quando siamo in cerca di lavoro, o quando dobbiamo rispettare una scadenza. Arriva un momento però, dopo tutto il trambusto provocato dalla frenesia del mondo occidentale, in cui sentiamo il bisogno di riconnetterci con noi stessi e rallentare.

Già, la lentezza come modo per riportarci al nostro ritmo naturale. Eppure, una persona lenta nello svolgere le sue mansioni ci infastidisce, chi si prende troppo tempo per sé ci appare svogliato o pigro. Perché questa dicotomia? Perché questo conflitto tra ricerca e rifiuto della lentezza?

Partiamo dalla parola, dal suo significato etimologico: il termine “lento” viene dal latino léntus, che è il participio passato di “lenire” e che veniva usato con l’accezione di “pieghevole”, “flessibile”, “tenace”.[1] Niente di più distante dal significato con il quale ci riferiamo e utilizziamo questo termine ai giorni nostri. Cosa è successo? Come e quando ci siamo allontanati dal significato originario della parola?

Homo vs machina

Una risposta breve e concisa potrebbe essere: la rivoluzione industriale. Ovvero il momento storico in cui le macchine sono entrate prepotentemente nella realtà lavorativa prima e domestica poi di ognuno di noi. La risposta, in ogni caso, sarebbe incompleta, parziale, e sostanzialmente scorretta.

Il problema, più che risiedere nell’avanzamento industriale e tecnologico, sta nell’uso che ne abbiamo fatto, nella centralità cui abbiamo posto le macchine all’interno delle nostre esistenze. Da semplici strumenti, utili per agevolare le mansioni dell’uomo, a entità vere e proprie. Tant’è che abbiamo iniziato a dare un nome proprio di persona a queste macchine. Questo, da un punto di vista cognitivo, ci ha portato a incarnare le macchine, portandole quasi su un piano corporeo.

Eppure il problema non risiede nemmeno in questo, non in senso stretto. Non è tanto il rapporto che abbiamo creato con le macchine in sé ad aver generato un cortocircuito, quanto piuttosto un aspetto più sottile, di tipo cognitivo. L’uso umanizzato delle macchine ha prodotto uno scambio sul piano semantico e ha introdotto nel nostro parlato termini che fino a poco tempo fa erano utilizzati solo nel linguaggio specifico della tecnologia. 

Oggi il mondo del lavoro misura il rendimento, ci chiede di essere resilienti,[2] efficienti, performanti.[3] Vocaboli che hanno senso per un dispositivo elettronico o meccanico; meno, molto meno per un essere umano. Tutti questi termini hanno in seno un unico comune denominatore: la velocità. Cambiamo il nostro smartphone quando smette di essere veloce, reattivo, così come il notebook o l’automobile. Allo stesso modo chiediamo a noi stessi di essere sempre attivi, immediati, pronti.

A parte il discorso legato all’industrializzazione e all’aspetto linguistico, c’è però un aspetto metafisico che ha portato la società occidentale a volersi sempre più veloce, sempre meno lenta. (Ma, per questo, anche meno flessibile, come ci dice l’etimo). È l’ossessione dell’uomo moderno, la variabile indipendente (letteralmente), il flusso nel quale siamo immersi senza poter avere nessun controllo su di esso: il tempo.

Homo faber

Seppur dal punto di vista tassonomico l’evoluzione dell’uomo è ferma all’homo sapiens, la complessità delle comunità che abbiamo costruito ci ha portato senz’altro a evolverci, pur in un’accezione strettamente antropologica. È per questo motivo che, attraverso vari stadi, siamo giunti in epoca industriale a una mutazione (evoluzione?) dell’homo faber. Ben diversa dall’accezione originale di Appio Claudio Cieco[4] per il quale “homo faber fortunae suae”.[5]

Tale accezione dell’uomo nel pieno controllo della sua sorte ha subìto – proprio come il significato etimologico della parola lentezza – una mutazione in epoca moderna. L’homo faber è infatti un uomo che concentra ogni suo sforzo solo se funzionale all’azione, un uomo che realizza se stesso attraverso la costruzione di un mondo di cose, di oggetti.[6] Tali oggetti hanno finito per circondarci e obbligarci al paragone costante tra le nostre e le loro prestazioni.

Da qui il rovescio del paradigma che, per certi versi, ha portato gli esseri umani da soggetti a oggetti. Il risultato di questo effetto è che ci siamo sempre più concentrati sulla funzionalità delle nostre azioni, abbiamo dato valore solo alla componente fattiva del nostro vivere, allontanandoci da un tempo necessario alla contemplazione.

Riprendendo le riflessioni di Seneca nel suo De tranquillitate animi,[7] l’uomo per sua naturale disposizione d’animo dovrebbe dedicarsi al pensiero, e al tempo a esso necessario, prima di prodigarsi verso l’azione. Agire senza contemplare conduce all’accumulo, secondo il pensatore latino, di eventi mai elaborati, non completamente interiorizzati. Il tempo che ci occorre per questo processo è strettamente personale, individuale anzi. Questo tempo è la lentezza. Il tempo che ci occorre per ponderare un’azione, lenire la nostra posizione, renderci flessibili verso il cambiamento.

Per comprendere, come ci dice Plotino, è necessario sottrarre. Come lavorare a una scultura partendo da un blocco di marmo. All’inizio la forma è solo immaginata, man mano che eliminiamo materiale, emerge l’opera d’arte.[8] Così, man mano che ci liberiamo da impegni soffocanti, incatenati gli uni agli altri, lasciamo la possibilità di ritrovarci nella nostra forma più autentica.

Homo fugit

Il tono di qualche passaggio all’interno di questo Articolo potrebbe risultare vagamente orientale, mistico. Eppure i pensatori citati finora sono latini. Forse è il caso di considerare che la differenza non sta nello spazio (occidente contro oriente). Ma nel tempo (stavolta inteso in senso storico).

Quello che a oggi ci suona come un approccio da fachiri, in realtà apparteneva alla nostra cultura qualche centinaio di anni fa. Eppure, mentre le culture orientali sono rimaste ancorate alla salda concezione del tempo, l’occidente ha tentato la fuga. Citando Milan Kundera possiamo riconoscere che:

La nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più a essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria.
                                                                                                                                               Kundera M., La lentezza[9]

Il demone della velocità ci ha fagocitato insieme all’ossessione di dimenticare il nostro stato temporale. Un vivere veloce, dunque, lontano dall’otium contemplativo dei nostri avi latini, per donarsi l’illusione di sconfiggere il trascorrere inesorabile del tempo o quantomeno per evitare di pensarci troppo.

Una scappatoia che però ben presto si traduce in una fuga da noi stessi, dall’accettare una componente naturale della nostra esistenza, con la quale sarebbe forse più saggio fare pace e andare d’accordo.

Homo léntus

È forse dunque necessario scardinare l’attuale tendenza alla velocità. La continua competizione all’interno di una società in cui è insito un sistema di valori che poco si addice alle nostre radici profonde. È così che ci troviamo come ingranaggi del sistema-società, ma ci perdiamo come esseri umani.

La saggezza, che tanto ammiriamo nei nostri avi, ci suggerisce che la lentezza è un suo costituente essenziale. L’immagine dell’uomo lento e rilassato si accompagna a una completa assenza di difesa nella sua postura, perché nulla ha da temere.[10] Lo stato dell’uomo contemplativo, così a suo agio con ciò che lo circonda, così in pace con il dentro e il fuori di sé, suscita invidia e brama. Giacché un tale stato di grazia è l’aspirazione ultima di molti esseri umani.

Allo stesso modo, andare lentamente ci consente di ascoltare noi stessi e gli altri, di investigare la complessità crescente del mondo che ci circonda. Ci permette di valutare l’altrui punto di vista, quindi l’alterità. Ci connette dunque con il nostro mondo interiore e ci permette di comprendere quello degli altri. Proprio perché essere lenti è essere flessibili e allo stesso tempo tenaci.

L’antropologo Pierre Sansot[11] enuncia alcuni atteggiamenti che incoraggiano la lentezza, tra i quali spicca proprio la possibilità di ascolto di se stessi, del proprio corpo e degli altri. Individua il punto nevralgico che ci fa desiderare di rallentare quando abbiamo bisogno di ritrovare noi stessi. Rallentare per poter seguire il «perfido consiglio» di ascoltare il proprio corpo.[12]

L’aggettivo “perfido” viene giustificato dalla difficoltà intrinseca di un corpo, il nostro, che è allo stesso tempo oggetto, di cui avere cura, e soggetto, poiché ci costituisce e stabilisce con noi un dialogo. Ancora più complesso è ascoltare gli altri: secondo l’antropologo francese avvicinarsi a una persona necessita di tempo, è una lezione che sta alla base dell’ospitalità.[13]

Conclusioni

Recuperare il significato etimologico della lentezza inizia a essere sempre più necessario. Dopo un periodo in cui velocità e produttività sono state le uniche forze propulsive, avvertiamo ora l’esigenza di recuperare una dimensione che consenta di esprimerci in tutto e per tutto. Piuttosto che costringerci in processi che appartengono alle macchine, agli oggetti, ma non a noi.

Sentiamo il bisogno, più che il desiderio, di riprenderci il nostro ruolo di soggetto, di uscire dalla catena di montaggio. Rivedere il nostro rapporto con il tempo, accoglierci in esso, invece di affannarci in una fuga nevrotica, oltre che vana. Proprio da questo punto di vista, in diverse parti del mondo si testano settimane lavorative di quattro giorni a parità di stipendio, con ottimi risultati anche sul piano dell’agognata produttività.[14] Si tenta di porre, insomma, l’accento sull’essere umano, sulle sue esigenze.

Questo perché, a differenza delle macchine, un essere umano per lavorare bene non ha bisogno di una nuova scheda madre o un processore potente. Non è possibile aggiornare il sistema operativo o montare una RAM più prestante. Un essere umano, per dare il meglio di sé, ha bisogno di essere felice.

Note

[1] Lento, etimo, data ultima consultazione 10/01/2023.

[2] Benché negli ultimi anni si sia assistito a uno spostamento semantico del termine più verso il significato conferito in psicologia, assumendo per questo l’accezione di una qualità umana, il termine resilienza è però anzitutto un termine che denota una proprietà dei materiali, dal vocabolario Treccani infatti: “resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.” e solo in ultima battuta il riferimento al moderno significato “3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc”. Resilienza, data ultima consultazione 10/01/2023.

[3] Saraceni G., La bellezza infelice. Il corpo umano nella postmodernità, Valencia (Spagna), Tirant Lo Blanch, contributo in volume, 2016, p. 258.

[4] Appio Claudio Cieco (350 a.C. – 271 a.C.) è stato un politico e letterato romano, nato di nobili origini in quanto membro dell’antica gens Claudia. A lui si deve il primo acquedotto della via Appia (che da lui prende il nome). Dal punto di vista letterario, sono giunti ai giorni nostri tre soli frammenti della raccolta di Sententiae, un’opera a carattere moraleggiante e filosofeggiante.

[5] «L’uomo è artefice della sua fortuna», contenuto nel testo moraleggiante Sententiae, frammento 3 della raccolta W. Morel, Fragmenta poetarum Latinorum Epicorum et Lyricorum: praeter Ennium et Lucilium, Lipsia, Teubner, 1995.

[6] Arendt H., La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 2009.

[7] Seneca, L. A., La tranquillità dell’animo, Segrate, Bur, 1997.

[8] Plotino, Enneadi (I, 6, 9) (1997), Torino, UTET, consultata ed. ebook 2013.

[9]  Kundera M., La lentezza (1995), Milano, Adelphi, 2021, p. 124 e 137.

[10] Bergson H., L’evoluzione creatrice, Segrate, BUR, 2012.

[11] Antropologo, filosofo e sociologo francese, Pierre Sansot (1928-2005) si è distinto per numerosi studi focalizzati sulle piccole comunità soggette ad alienazione e alle strategie da queste adottate per arricchire la propria esistenza.

[12] Sansot P., Sul buon uso della lentezza. Il ritmo giusto della vita (1999), Milano, Il Saggiatore, 2010, p. 47.

[13] Sansot P., op. cit., p. 52.

[14] Settimana corta, data ultima consultazione 10/01/2022.

Gennaro Rollo

Gennaro Rollo, nato a Napoli il 2 febbraio 1985, è laureato in Chimica e assegnista di ricerca presso l’Istituto di Polimeri del CNR in sede a Lecco. Appassionato di linguistica e dialettologia, ha seguito diversi corsi presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Il serraglio.

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