Intrecci oltre l'umano
Fuori cade la neve, io sono il cacciatore che tiene il pesce tra le braccia.
La neve si posa sui rami degli alberi, io sono il pesce rannicchiato tra le braccia del cacciatore.
La neve copre tutto, io sono il pesce che si rituffa e si trasforma in un uccello multicolore sotto la superficie fredda e buia del fiume.
Nastassja Martin, Credere allo spirito selvaggio
Con chi abitiamo il mondo?
Non sono passati poi così tanti mesi da quando ho discusso la mia tesi in Antropologia della natura. Quasi un anno di ricerca sul campo. Un’immersione in un bosco estremamente vivo e popolato da persone non umane. Non umani con cui mai mi sarei aspettata di stringere una relazione così profonda da scriverci una monografia intera.
Ho potuto riflettere sulla vicinanza di umani e non umani, sulla condivisione di luoghi, di sensi e, in alcuni casi, di cibo. Ho esplorato le relazioni tra predatore e preda e immaginato un mondo in cui a un tale assemblaggio sia riconosciuta dignità. Un mondo in cui, finalmente, gli umani capiscano di farne parte.
Ho, perciò, suggerito di provare a comunicare con gli altri abitanti di questi mondi così profondamente intrecciati attraverso lingue nuove, non più unicamente umane. E di ritornare – come diceva Latour – terrestri insieme agli Altri terrestri, non necessariamente umani.
Dopo un lavoro del genere, è impossibile non vedere ovunque un tale intreccio. Ed è
impossibile non continuare la riflessione spiando quotidianamente gli effetti del Naturalismo.[1] Questo sembra saper offuscare brillantemente l’assemblaggio e illudere gli umani che la loro specie sia in cima alla piramide. Che la loro vita meriti più risorse, più attenzione e, in ultimo, più rivalsa.
Proprio per questo, è stato impossibile rimanere impassibili di fronte alla turbolenza nata dall’aggressione mortale di un’orsa – a cui, spogliando di ogni romanticismo l’atto del nominare l’Altro, ci riferiamo con “JJ4” – nei confronti di Andrea Papi. Il ragazzo ventiseienne ha fatalmente incrociato il suo cammino durante una corsa “dietro casa” nella Valle di Sole, in Trentino.
Le opinioni si sono sommate una all’altra con la velocità tipica della nostra epoca. Nei giorni successivi all’incidente il dibattito si è animato. Come sempre, le fazioni si sono create in fretta e non hanno risparmiato gli avversari. Chi vuole uccidere l’orsa assassina contro chi si sente animalista e vuole salvarla. Giornali e quotidiani si riempiono, così, di punti di vista. Di racconti (più o meno dettagliati e veritieri) e articoli a supporto di una o l’altra fazione.
Così, mentre leggo, cerco di capire in mezzo a un’infinità di notizie che puntano a semplificare ulteriormente il dibattito dicotomico. Mi vengono in mente gli articoli, i libri, le interviste che, durante il mio lavoro di campo, mi mostravano un pezzo alla volta questa faccia della “nostra” ontologia.
Per illuminare meglio tale concetto, che risulta qui fondamentale, possiamo prendere in prestito le parole di Nadia Breda. Nella postfazione del libro dello stesso Descola ci spiega che ontologia «non è un altro modo di dire cultura. La cultura è una rigida barriera tra i soggetti umani e le società (con poche inclusioni dei non umani), mentre le ontologie sono fiumi, dove scorrono insieme gli umani e i non umani».[2]
Ecco, quindi, che le ontologie descoliane diventano veri e propri strumenti euristici. Dei poli verso cui tendono le varie relazioni che gli umani intrecciano con gli altri abitanti della Terra. Ma anche mappe attraverso cui mondi interi vengono costruiti. L’ontologia che nel presente articolo ci fa da mappa è quella occidentale, quel Naturalismo cui abbiamo già accennato. La “nostra” ontologia, quindi, in quanto nata e costruita nell’Occidente in cui chi scrive è immersa. Ma, non per questo, condivisa o ritenuta valida da tutti i suoi abitanti (umani e, ovviamente, non solo).
Ciò che segue non vuole essere una presa di posizione in un tale dibattito. Ma, semplicemente, come spesso fanno gli antropologi, un invito a sbirciare punti di vista con cui abbiamo poca familiarità per creare un po’ di sano dubbio rispetto alle nostre immancabili opinioni chiare e semplici. Seppur sembrerà impossibile, a tratti, non leggere uno schieramento intrinseco nelle parole che seguono, quest’ultimo deve essere riconosciuto come qualcosa d’altro rispetto alla “battaglia” pubblica che, negli ultimi quotidiani, investe i nostri occhi.
Ciò che si cercherà di illuminare sarà l’esistenza di un rapporto complesso. Di un intreccio che ci può fare da canovaccio per leggere e comprendere conflitti che, alla luce di un naturalismo “zoppicante”, paiono a tratti nuovi e di difficile comprensione.
Ci sono luoghi, infatti, all’interno del “nostro” mondo, in cui l’ontologia dominante, come sempre d’altronde, crea – o meglio dimentica – zone d’ombra dove è possibile sbirciare per scoprire qualcosa di più su ciò che ci accade intorno. L’attacco orsino nei confronti di un umano che ci sta così scuotendo potrebbe essere visto come una luce improvvisa puntata su una di queste zone d’ombra in cui la convivenza – silenziosa e non necessariamente pacifica – con alcuni non umani era ignorata dai più.
Paura di ciò che non è umano
1. La storia di Val Plumwood
Ebbene, il primo pensiero che cerca di farsi ascoltare in mezzo al caos delle notizie vuole farmi ricordare la storia di Val Plumwood. Filosofa ed ecofemminista australiana, Plumwood nel 1985 ha rivestito per qualche istante il ruolo primordiale di preda nelle fauci di un coccodrillo affamato del Parco nazionale di Kakadu, in Australia.
La filosofa, in canoa, sta attraversando un fiume quando incontra tale non umano che, con le sue fauci, tenta di divorarla. Dopo aver inutilmente tentato di aggrapparsi agli alberi intorno a lei, Val Plumwood cambia strategia. Riesce a salvarsi decidendo di smettere di dimenarsi, per affidarsi, invece, alla corrente del fiume.
Se la filosofa è riuscita a liberarsi dal morso del sauro, ciò è stato possibile solamente grazie alla sua arguzia nel riuscire a riconoscere la via per la salvezza non verso l’altro, e fuori dall’acqua, bensì verso il basso e verso l’immobilità. Decidendo, infatti, di lasciarsi andare, di permettere alla corrente di toglierle il coccodrillo di dosso, riesce a trovare una riva attraverso cui fuggire dal suo predatore.
La capacità di Val Plumwood, in un momento spaventoso e ai limiti della nostra immaginazione, è stata quella di «decentrarsi da sé»,[3]. Ovvero continuare a riflettere cambiando prospettiva e preservando la sua vita attraverso il movimento opposto rispetto a quello che più le poteva sembrare “naturale”.
Come ci racconta Baptiste Morizot[4], infatti, «Val incarna il coraggio diplomatico. In effetti, alcune ore dopo l’attacco, mentre ferita e spossata viene condotta dai ranger all’ospedale di Darwin, ascolta una loro discussione in cui sostengono di voler andare a uccidere il mostro. Non importa quale: ucciderne uno andrà più che bene».[5] A tal punto, però, la filosofa sopravvissuta, si oppone: «Ho detto che ero fermamente contraria a quest’idea. Ero io l’intruso, e una vendetta casuale non avrebbe portato a nessun obiettivo rilevante. In quel punto, il fiume era pieno di coccodrilli»[6].
Successivamente, Val Plumwood avrà modo di riflettere a lungo su un tale incontro. E saprà restituirci un punto di vista estremamente interessante. Il punto di vista di una preda, rispetto a uno dei fondamenti del Naturalismo occidentale che fa di una tale posizione un tabù.
Questa concezione dell’identità umana pone gli esseri umani al di fuori e al di sopra della catena alimentare, non come commensali che banchettano in una catena di reciprocità, ma come manipolatori esterni e padroni di questa catena: possiamo mangiare gli animali, ma essi non possono mangiarci.[7]
Ecco la cima della piramide, difesa scrupolosamente dall’uomo che non può riconoscersi come cibo altrui. Pena l’eliminazione dell’Altro predatore che, disgraziatamente, ha deciso di attaccarci.
Eppure, la reciprocità intrinseca nella catena alimentare di cui parla Val Plumwood è qualcosa che io stessa ho potuto vedere con i miei occhi quando ho deciso di osservare, da diversi punti di vista, i mondi intrecciati di un bosco occidentale.
La ricerca in questione è nata nel bosco di Oncino, un piccolissimo borgo della Valle Po – vallata piemontese da cui prende vita il fiume Po. Progressivamente abbandonata dagli indigeni umani, è ora sempre più abitata da generazioni di non umani appena arrivate o rientrate “a casa” dopo anni di assenza.
Qui, come altrove, lupi, volpi, corvi, vermi e insetti condividono, anche se quasi mai senza conflitti, i resti delle prede. E spesso un solo corpo diventa banchetto di molti. Nonostante tutto ciò accada spesso sotto gli occhi dei compagni di branco di chi sta venendo mangiato, la vendetta, comunque, non entra a far parte del gioco.
L’ecosistema del bosco fa sì che coloro che lo abitano siano vulnerabili agli altri, ai loro vicini di casa per un motivo o per un altro. Se il capriolo è potenzialmente preda del lupo, sa di esserlo mentre bruca l’erba sotto lo sguardo del suo predatore. Il suo pasto, però, è (quasi) sempre disponibile.
E il numero dei suoi compagni fa sì che egli[8] possa continuare a vivere un’esistenza che, in cambio di cibo in abbondanza, ha fatto pace con la paura e con fughe ripetute, nella continua speranza di non finire condiviso da innumerevoli musi e becchi del bosco. Al contrario, il lupo, nel suo status di predatore, deve fare i conti con pasti saltuari e non garantiti, in luogo di una vita (quasi) senza paura, spogliata dall’eventualità di finir preda di quegli stessi musi e becchi con cui, spesso, banchetta.
Fin qui, non sto raccontando nulla di nuovo. Per noi umani, infatti, tutto ciò è normale, o meglio “naturale”. Tuttavia, a partire da un certo punto in poi[9] una fetta dell’Occidente ha deciso che l’umanità non avrebbe (più) fatto parte di questa natura. Così, oggi “noi” possiamo sentirci al riparo rispetto al dilemma di essere prede o predatori, relegato invece a lupi e a caprioli.
In fondo, che ne può sapere un’umana come me di cosa significhi esser preda e dover fuggire quotidianamente da fauci affamate? Se dovessi trasformarmi in cibo, in corpo condiviso all’interno del bosco, sarebbe sicuramente per un “incidente”. Per qualcosa di fuori dal normale, una tragedia che non appartiene al nostro mondo.
2. L'esperienza di Nastassja Martin
Un secondo pensiero bussa allora alla porta del mio cervello. Mi torna in mente l’esperienza di Nastassja Martin, antropologa francese attaccata da un orso durante il suo lavoro di campo in Kamchatka. Martin, proprio attraverso un tale incontro, si è riscoperta ibrida, metà e metà, parte di una condivisione che superava e inglobava il suo corpo e la sua soggettività di umana.
L’antropologa ritrova l’orso nei suoi sogni ancora oggi e la spiegazione offertale dal Naturalismo occidentale non le basta per comprendere ciò che le è accaduto. In un’intervista infatti spiega lei stessa: «Qui tutti mi parlavano della violenza dell’incidente che avevo subito. Mi descrivevano l’orso come un selvaggio. Nessun’altra versione dei fatti era possibile. Quando cercavo di spiegare che per me era stato altro, che il mio percorso di vita, tappa dopo tappa, mi aveva portato a quell’incontro, mi sentivo incompresa».[10]
Quello stesso incontro, difatti, rappresenta un vero e proprio scontro tra mondi che molto può dirci rispetto a una convivenza da cui, anche se testardamente tentiamo di svincolarci, non possiamo sottrarci. Scrive, a tal proposito, l’autrice:
oggi seduta in riva al fiume nella neve bagnata scrivo che esiste una legge implicita, silenziosa. Una legge adatta ai predatori che si cercano e si evitano nelle profondità dei boschi o sulle dorsali della terra. Questa è la legge: quando si trovano se si trovano, i loro territori implodono, i loro mondi si rovesciano, il loro consueto avanzare si altera e i loro legami diventano inscindibili.[11]
Nel suo caso, infatti, è proprio il bacio dell’orso a renderla medka, metà e metà. A trasportarla in una zona ibrida, a cavallo tra due mondi, ancora umana ma definitivamente legata a un Altro con cui condivide molto, non solo un’esperienza di una tale portata, ma anche – e soprattutto – gli stessi sogni.
Ascoltando parole come quelle di Nastassja Martin, è possibile mettere da parte la “mostruosità” di tali aggressori non umani e concentrarci invece sulla nostra posizione nel mondo. Immersi in un intreccio che non vogliamo comprendere, siamo in realtà vicini e legati, più di quanto sappiamo ammettere, ad Altri, diversi da noi per gli attributi corporei (zanne, artigli, peli) ma non per questo “estranei”.[12]
Allo stesso modo, dunque, possiamo ulteriormente relativizzare il nostro punto di vista e il nostro presunto ruolo di abitanti della cima della piramide. In fondo proprio noi, in quanto umani, siamo intrinsecamente cibo tanto quanto un capriolo. Siamo biomassa o, come direbbe Donna Haraway, “compost”.[13]
Mi sembra che la cultura della supremazia umana propria dell’Occidente si caratterizzi attraverso il grandissimo sforzo di negare che noi esseri umani siamo anche degli animali con un posto nella catena alimentare. La negazione del fatto che siamo cibo per altri è visibile nelle nostre pratiche mortuarie e funerarie. La bara solida che, come vuole la consuetudine, viene sotterrata ben al di sotto del livello di attività della fauna di superficie, e la lastra posta sopra la tomba per proibire a chiunque di dissotterrarci impediscono ai corpi umani occidentali di diventare cibo per altre specie.[14]
Infatti, proprio in quel bosco, anche io posso divenire preda di qualcun Altro. Forse non cibo condiviso – più che altro perché immagino che la mia “puzza di città” non ispiri un buon sapore al rinario di un lupo. Ma pur sempre vittima potenziale di alcune prede del luogo.
Basti pensare al morso delle vipere, che popolano le Alpi. Con loro, fin da piccola, ho imparato a scendere a patti negoziando una caviglia senza morso in cambio di un passaggio libero e sicuro garantito al serpente.
Conclusione: non siamo mai (stati) soli
Così, se proviamo per un attimo a spogliarci della negazione di cui parla Val Plumwood e proviamo a riconoscerci un posto in mezzo a un tale intreccio di corpi, di vite e di stomaci affamati, sentiremo che “l’ingiustizia” di un attacco animale nei confronti di un umano altro non è che il prodotto di un’illusione creata ad hoc dal naturalismo occidentale.
Un’illusione che prende attivamente parte allo sforzo naturalistico che vuole convincere gli umani di essersi liberati della natura e di non farne più parte. Abbiamo, invece, bisogno più che mai di riconoscerci parte dei mondi Altri con cui condividiamo il pianeta. Perché è solo così che potremmo continuare effettivamente a vivere sulla Terra. Abbiamo bisogno di scendere a patti con gli Altri predatori, di ritornare, appunto, terrestri. E di accettare che la nostra immunità non è che una pericolosa chimera.
Tornare terrestri, però, significa anche tentare di comunicare con gli Altri terrestri, non umani, e non limitarci a imporre le nostre vendette, i nostri confini e i nostri tabù. Alcuni autori[15] immaginano esattamente una comunicazione di questo tipo, che passi attraverso una lingua che superi l’umano e che diventi condivisa con Altri abitanti. Un linguaggio, quindi, che si liberi da pretese antropocentriche e che, abbandonando il sistema simbolico cui siamo abituati noi umani, si faccia diplomatico, a cavallo tra mondi diversi per permettere una comprensione di voci Altre che, al momento, non sappiamo né ascoltare e né, tantomeno, comprendere.
Che un’impresa del genere sia estremamente complessa non lascia ombra di dubbio. Eppure, nel vortice del caos climatico che avvolge oggi tutti noi, la necessità di dialogare – finalmente – con gli Altri corpi ed entità che vorticano in un tale turbine è lampante.
[La] consapevolezza che un certo mondo (il nostro mondo) stia volgendo al termine (la crisi del capitalismo, il rischio di un’imminente catastrofe ecologica, ecc.), spinge a interrogare il patrimonio di esperienze e di conoscenze di chi questa catastrofe l’ha già vissuta. Le società amazzoniche, dopo tutto, hanno visto il loro mondo propriamente dissolversi, e in qualche misura hanno provato a resistere, a sopravvivere. Noi possiamo attingere alla loro esperienza dell’apocalisse, per evitare forse la nostra.[16]
Se Roberto Beneduce immagina di affrontare un momento di spaesamento come quello presente attingendo a conoscenze di altre società, noi potremmo spingerci a cercare di fare lo stesso. Ma ricercando le risposte di cui abbiamo bisogno anche in Altri discorsi, oltre l’umano.
Ciò, tuttavia, è possibile solo “spianando” la piramide di cui ci sentiamo padroni e ammettendo che la relazionalità, da cui un tale dialogo può effettivamente prendere forma, comporta anche l’immersione in rapporti conflittuali – e, talvolta, predatori – a cui non possiamo più (illuderci di) sfuggire.
La stessa Nastassja Martin riflette su di un punto simile quando ci racconta il punto di vista di un soggetto che in tali rapporti è effettivamente immerso:
Qui è sempre così, niente va mai come vorremmo, tutto oppone resistenza. Penso a tutte quelle volte in cui il colpo non parte, in cui il pesce non abbocca, in cui le renne non avanzano, in cui la motoslitta scoppietta. È così per tutti. Si cerca di mostrarsi disinvolti ma si vacilla, si sprofonda, si zoppica, si cade, ci si rialza. Ivan dice che soltanto gli umani credono di fare bene ogni cosa. Soltanto gli umani attribuiscono una tale importanza all’immagine che gli altri hanno di loro. Vivere nella foresta è un po’ questo: essere un vivente in mezzo a tanti altri, oscillare con loro.[17]
Spogliandoci del nostro antropocentrismo, forse, possiamo (re)iniziare a sentire una tale oscillazione, comune e condivisa appunto, che ci rende parte di un intreccio che ci ingloba e ci supera, e in cui, davvero, prende forma la vita.
Non siamo mai stati soli ed è arrivato il momento di riscoprire che anche gli Altri abitanti della Terra hanno voci che possiamo – e dobbiamo, come ben dimostrato dall’evento da cui siamo partiti – ascoltare.
Forse, proprio restituire dignità a punti di vista[18] Altro-che umani, di prede e predatori – o almeno provarci – può essere d’aiuto nel tentare di stabilire una più sana condivisione di luoghi e di affrontare, meglio di come stiamo facendo, il ritorno di alcuni non umani (ritorno che spesso abbiamo provocato noi stessi[19]) in luoghi che continuano a essere abitati anche da umani.
Ciò non significa illudersi che non esista il conflitto ma, più che altro, accettarlo come parte integrante dell’intreccio di cui, volenti o nolenti, facciamo parte e da cui, forse, è ora di smettere di nascondersi.
Note
[1] Si veda la classificazione ontologica di Philippe Descola presentata nel suo Oltre natura e cultura secondo cui il Naturalismo è l’ontologia (nonché il paradigma) prevalente in Occidente. Esso postula una separazione di base tra Natura e Cultura e, isolando completamente l’Umano dal resto del mondo, innalza quest’ultimo a una posizione da cui possa arrogarsi il diritto sulla Natura.
[2] Breda in Descola Philippe (2005), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2021, p.524, corsivo mio.
[3] Morizot Baptiste (2017), Sulla pista animale, nottetempo, Milano, 2018, p. 72.
[4] Filosofo francese che riflette brillantemente sull’intreccio di umani e non umani, specialmente lupi, tentando di immergersi in prima persona nel mondo Altro-che-umano attraverso pratiche come il tracciamento e il fototrappolaggio. Si veda, su questo tema, la sua opera intitolata Sulla pista animale.
[5] Ibidem.
[6] Plumwood in Morizot Baptiste (2017), op. cit., p. 72.
[7] Ibidem.
[8] Il tentativo di riconoscere uno statuto di soggetto ai non umani di cui trattiamo passa anche dalla scrittura; perché non provare a riferirci a tali abitanti del bosco con pronomi che useremmo per descrivere i loro “vicini di casa” umani?
[9] È a partire dall’epoca classica, secondo Philippe Descola, che il naturalismo occidentale comincia a formarsi come ontologia e, da qui, inizia la progressiva – illusoria – divisione tra mondo “naturale” e “culturale”.
[10] Intervista del 23 giugno 2021 de Il fatto quotidiano.
Si veda: Nastassja Martin: ho combattuto con un orso, la mia rinascita. Ultima consultazione 22 giugno 2023.
[11] Nastassja Martin, Credere allo spirito selvaggio, p. 108.
[12] Nella stessa intervista, l’antropologa afferma: «Sarebbe stato più facile descrivere l’incontro come un attacco, ma non è andata così. Per me quell’animale non era un estraneo».
[13] «I am a compost-ist, not a posthuman-ist: we are all compost, not posthuman» (Haraway Donna (2015), Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, Environmental Humanities, vol. 61, p. 61).
[14] Plumwood in Morizot Baptiste, Sulla pista animale, p. 73.
[15] Ricordiamo, tra tutti, Baptiste Morizot che immagina una vera e propria lingua garou, mannara, che permetta a umani e lupi di comunicare tra loro; cfr. Morizot (2018).
[16] Beneduce in Viveiros de Castro, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, p. 201.
[17] Nastassja Martin, Credere allo spirito selvaggio, p. 111 (corsivo mio).
[18] Si vedano gli sforzi post-ontoligici in tal senso; cfr. tra gli altri, Viveiros de Castro (2013), Tim Ingold (2000), Eduardo Kohn (2013), Donna Haraway (2003).
[19] L’orsa JJ4 è, infatti, figlia di orsi reintrodotti nei boschi trentini nell’ambito del progetto Life Ursus che puntava a far rinascere la popolazione ursina in territorio alpino italiano.
Fonti
DESCOLA Philippe (2005), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2021.
HARAWAY Donna (2015), Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene:
Making Kin, Environmental Humanities, vol. 6, pp. 159-165.
HARAWAY, Donna (2003), The companion species manifesto: dogs, people, and significant otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago.
INGOLD Tim (2000), The perception of the environment. Essays on livelihood, dwelling and skill, Routledge, Oxforshire.
KOHN Eduardo (2013), How forests think: toward an anthropology beyond the human,
University of California Press, Oakland.
MARTIN Nastassja (2019), Credere allo spirito selvaggio, Bompiani, Milano, 2021.
MORIZOT Baptiste (2017), Sulla pista animale, nottetempo, Milano, 2018.
VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo (2009), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona, 2017.
VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo (2013), The relative native, HAU: Journal of Ethnographic Theory cap. 3 § 3, 473-502.
Chiara Ponzi
Chiara Ponzi, nata nel 1996, si è laureata in Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università di Torino.
Originaria di un piccolo paesino della Valle Po, dove attualmente gestisce un rifugio montano, ha trovato in quel luogo un terreno fertile per la sua prima ricerca etnografica sul campo.
Uno scritto illuminante. Pratico una dieta vegana e ho trovato questi concetti molto interessanti e rappresentativi del mio pensare. Grazie!