Il rigetto del corpo
Introduzione: il disagio di essere corpo
Le mestruazioni, le feci, il sudore, la nudità, la peluria, i liquidi secreti dalla vagina durante la gravidanza, la polluzione notturna e via discorrendo. Tutti fenomeni fisiologici che sia uomini che donne sperimentano, ma che anche solo a parlarne proiettano in noi un senso di disagio.
Con maggiore distacco parliamo di guerre, stragi, violenze inaudite; forse proprio perché sono lontane da noi. E con questo non si vuole intendere lontane perché la guerra è in un altro Paese o perché la persona uccisa non è nostra parente. Bensì lontane dal nostro corpo, da tutti quei processi biologici che abbiamo imparato a celare, fingere che non ci riguardino. Quasi vivessimo in una condizione esistenziale che non viene coinvolta da queste funzioni.
Abbiamo, insomma, pudore del nostro stesso corpo. Questa parola, “pudore”, deriva dal latino pudor, ossia “che induce avversione” e che ha come radice “pud-” che vuol dire “fuggire”.[1] Fuggire, dunque, ma da cosa? O forse sarebbe meglio chiedersi: “da chi?”
Paese che vai, pudore che trovi
Il senso del pudore ha avuto una sua evoluzione spazio-temporale e, più in generale, culturale. Non risulta difficile immaginare come già ai giorni nostri il senso del pudore occidentale sia diverso da quello orientale. Quello di un cattolico è diverso da quello di un musulmano. Ma anche il pudore per un italiano è diverso da quello di un finlandese.
Basti pensare che spesso per i finlandesi è del tutto naturale fare il bagno nudi con i propri figli fino quasi all’età adulta. E in generale farsi vedere in abbigliamento intimo. Insomma, il pudore si intreccia profondamente con la morale. Con quello che per cultura tendiamo a ritenere osceno, intimo, privato.
L’antropologo Alfonso Maria di Nola,[2] durante un’interessante Lectio magistralis, ha dispiegato il concetto di pudore da un punto di vista storico-antropologico.[3] Da questa illuminante lezione apprendiamo che non sono oggetto di pudore solo i genitali. In alcune culture, come quella degli antichi giapponesi, il piede – in particolare il tallone – era considerato una zona erogena.
Allo stesso modo, spiega il professore, per i neozelandesi è il naso la componente del corpo di cui avere maggiore pudore. Inoltre, non è nemmeno vero che i genitali sono stati da sempre motivo di pudore. Nell’antica Roma, ad esempio, prima dell’avvento del Cristianesimo, le donne usavano indossare collane con pendenti di forma fallica. Questo poiché si riteneva potesse essere di buon auspicio per la fecondità femminile.[4]
Pur non volendo approfondire in questo articolo le motivazioni storico-antropologiche, risulta evidente come le religioni abbiano notevolmente contribuito alla repulsione per i propri istinti (perché considerati terreni e per questo macchiati del peccato originale). Risulta inoltre chiaro come questa repulsione abbia visto la fonte del peccato nei genitali.[5]
Eppure, non vogliamo scaricare l’intera responsabilità sull’educazione morale ricevuta più o meno direttamente attraverso i dogmi e gli stigmi religiosi. E, portando la discussione invece anche su un piano biologico, sembra che vi sia una naturale tendenza da parte del cervello umano a provare maggiore interesse verso ciò che è velato o che può essere solo immaginato.[6]
In questo processo di “decorporizzazione” del corpo va a inserirsi quell’insieme di precetti che vengono assorbiti grazie alla cultura – religiosa o laica che sia. Nel momento in cui la nostra mente, infatti, deve sostituire un’informazione reale, come ad esempio la forma dei genitali, con l’idea che abbiamo della stessa, ecco che la forma che consideriamo ideale sostituisce quella reale.
Il nostro immaginario, insomma, non è libero, ma viene plasmato e modellato dalla cultura di appartenenza. Così il concetto di bello appartenente a una persona cattolica genera, nell’immaginario, una forma dei genitali diversa da quella generata nella mente di una persona di religione ebraica. Questa – data la pratica diffusa della circoncisione – potrebbe essere più portata a immaginare genitali maschili circoncisi.
Un primo, parziale (e comunque edulcorato) tentativo di normalizzare i comuni processi fisiologici e renderli sereni argomenti di conversazione è sorto intorno agli escrementi. A ben vedere, la «materia oscura»[7] è già presente in alcune opere satiriche greche e di tanto in tanto appare anche in opere pittoriche.
Più recentemente trova rappresentazione anche nel cinema.[8] E come dimenticare la Merda d’Artista di Piero Manzoni, l’opera a riguardo più famosa di tutte?[9]
Ripudiati per generare un contrasto netto tra il pulito e lo sporco (l’uomo elevato a puro spirito e la bestia, il civile e l’incivile), gli escrementi hanno però sempre avuto un certo carattere ironico e sovversivo.
Talvolta hanno costituito l’unica vera e propria arma da parte di chi subiva soprusi. Accadde nel 1978 nelle prigioni di Maze, in Irlanda del Nord. Per protesta i detenuti imbrattarono le pareti delle celle con il contenuto dei propri vasi da notte.[11]
A partire dagli anni Sessanta si è tentato di avvicinarsi all’argomento in maniera edulcorata, immaginando con fantasia come la cacca degli unicorni potesse essere arcobaleno.[12] Un modo come un altro di parlare del tema che in un certo senso ha sempre attratto la discussione tra le persone. Anche per il fatto che riguarda un atto che ognuno di noi compie in media una volta al giorno.
Tutta questa convivialità intorno all’argomento, a ben vedere, è un’azione di recupero. Basti pensare che nell’Antica Roma le latrine erano luoghi comuni. In questi, infatti, si defecava e si conversava in presenza di amici, conoscenti o altri cittadini.[13]
I bagni privati erano disponibili solo presso il palazzo imperiale. Si potrebbe quasi ipotizzare che con l’avvento dei bagni in casa e dunque della proprietà privata (che ha come radice il verbo “privare”, separare dal pubblico[14]), sia sorto il comune pudore verso gli escrementi, sottraendoli di fatto al vivere condiviso e facendoli diventare qualcosa da fare tra le proprie mura di casa, lontani da occhi indiscreti.
Il corpo nella filosofia
Quello del rapporto con il corpo è un tema che ha da sempre interessato il pensiero filosofico e i più grandi pensatori di ogni tempo.
Per Aristotele gli esseri umani sono un’unità di anima e corpo, in cui la prima determina il secondo. Per Platone, invece, il corpo è la sede di quelle passioni che possono ostacolare il raggiungimento della conoscenza delle idee. In epoca moderna, Cartesio distingue res cogitans e res extensa, separando così la razionalità dalla dimensione corporea.
Ma è forse con il pensiero contemporaneo che si arriva alle riflessioni che più interessano il tema di questo Articolo. Con Husserl, infatti, viene introdotto il concetto fenomenologico di Leiblichkeit.[15]E viene posto in evidenza come proprio il corpo sia il fondamento dell’esperienza umana. Il corpo, dunque, non è da considerarsi solo come un oggetto nel mondo, ma anche ciò attraverso cui si fa esperienza del mondo.
Jean-Paul Sartre, invece, riflette su come il corpo sia il luogo in cui si svolgono le nostre libertà e responsabilità. Infatti è per mezzo di esso che ci rapportiamo al mondo e agli altri. Quindi il corpo diventa una parte essenziale della nostra esistenza.
La filosofia di Sartre si sofferma anche sul carattere ambiguo e problematico del corpo. Poiché può essere oggetto di sguardo e giudizio degli altri, limita la nostra libertà e autenticità. Emerge così l’idea che siamo “condannati a essere liberi”,[16] costantemente impegnati nella creazione e definizione di noi stessi attraverso le nostre scelte e azioni.
Partendo dal rapporto con il proprio corpo, il filosofo affronta anche il conflitto intrinseco che vige nel rapporto con l’Altro, in quanto l’esistenza stessa dell’Altro rende il corpo un oggetto. Questa oggettificazione si estende a tutti gli individui: ognuno rende oggetto ciò che è altro da sé. Giungere alla consapevolezza di essere insieme oggetto e soggetto può turbarci e farci sentire mere “cose utilizzabili”.
Il corpo non è più solo un oggetto per noi che, come abbiamo visto con Husserl, ci permette di fare esperienza del mondo. Nella dimensione intersoggettiva, infatti, diventa un oggetto per l’Altro.
Il corpo, quindi, è strumento dell’essere nel mondo. E le correnti filosofiche più vicine a noi insistono sull’analisi del corpo nel rapporto con se stessi e con gli altri. Analisi che può essere ben sintetizzata in questa citazione del filosofo e fenomenologo francese Merleau-Ponty: «per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente».[17]
Ci vuole un fisico bestiale
Anche al giorno d’oggi non mancano pensatori che si occupano di questo tema, come il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti che ne Il corpo[18] affronta l’ambivalenza dell’uomo nel riconoscersi mente e corpo.
Con l’affermazione del modello capitalista, appoggiato dalla logica egocentrica dei social network, si può notare come per molte persone sia diventato più importante “apparire” che “essere”. Il corpo, in questa migrazione di valori, ha assunto così sempre di più un carattere estetico. La cura della nostra persona è sempre più finalizzata alla possibilità di mostrarci all’Altro.
Abbiamo preso coscienza sì del nostro corpo, ma a un livello, per così dire, epidermico. Come se il nostro corpo si limitasse a essere i pochi strati di pelle che sono esposti verso il mondo esterno. Abbiamo capito l’importanza di non essere sovrappeso, ma non perché così facendo evitiamo di affaticare gli organi interni e le articolazioni ossee, bensì perché così possiamo mostrarci con vanto (che proviene dal latino tardo vanĭtare, propr. «essere vano», «essere vuoto»[19]). Il corpo dunque come un contenitore di cui avere cura, senza preoccuparsi del contenuto.
Bisogna però fare attenzione a demonizzare l’apparire in sé . Di fatto, apparire – e qui intendiamo in senso letterale, l’apparenza in senso stretto – è l’unico modo che abbiamo per «essere-con-altri», per dirla con l’espressione dell’antropologo e biologo Adolf Portmann.[20]
Anche l’apparenza, insomma, è qualcosa che ci appartiene. È il modo che abbiamo per comunicare esteticamente con il mondo. Il problema, piuttosto, è nascosto nella tendenza a ragionare in maniera binaria, con fazioni che si schierano a difesa del bianco o del nero, senza considerare il fascino della sfumatura. A questo punto, più che porci la domanda “essere o apparire?”, dovremmo risponderci “essere e apparire”, considerando il sottile equilibrio tra i due.
Il corpo come confine
Se è vero che semanticamente non “abbiamo” un corpo, ma “siamo” un corpo, e se è vero che questo corpo è nostro in quanto essenza e in quanto apparenza, nel suo essere apparente appartiene comunque sempre e solo a noi oppure no?
Questo interrogativo porta a una riflessione molto più ampia che affronteremo presto in un prossimo articolo. Di certo, come si è potuto evincere da questo scritto, il corpo risulta essere il confine tra l’interiorità e l’esteriorità di ogni individuo, il punto di contatto tra il dentro e il fuori, tra noi e gli altri. Ma anche il punto in comune.
Prenderci cura di noi, nella nostra interezza, infatti, permette di confrontarci con gli altri anche sugli aspetti che abbiamo imparato a ritenere imbarazzanti.
A conclusione di questa trattazione, che come al solito vuole essere uno spunto di riflessione e approfondimento, potremmo dire che, appurato che siamo il corpo che abitiamo, sarebbe bene accettarlo in tutte le sue componenti, così come sarebbe importante recuperare una dialettica intorno a quanto abbiamo imparato a nascondere con pudore.
Note e fonti
[1] https://www.etimo.it/?term=pudore, ultima consultazione 14/01/2024.
[2] Alfonso Maria di Nola (Napoli 1926 – Roma 1997) è stato un antropologo e uno storico delle religioni, studioso dei vangeli apocrifi. Si è occupato di misticismo ebraico, superstizioni e religiosità popolare. Ha diretto dal 1990 al 1997 l’Enciclopedia delle religioni.
[3] http://www.psychiatryonline.it/node/8135, ultima consultazione 14/01/2024.
[4] Cfr. Lacour J., Priapo e il culto degli organi generatori, Napoli, Stamperia del Valentino, 2020, p. 54.
[5] Ølstein Endsjø D., Sex and Religion: Teachings and Taboos in the History of World Faiths, Londra, Rekation books, 2012, p. 11.
[6] Berlin H. A., The Neural Basis of the Dynamic Unconscious, Neuropsychoanalysis, Londra, Taylor & Francis, 2011, pp. 5-31.
[7] Werner F. Dunkle materie, Zurigo, Nagel & Kimche, 2011, p. 18.
[8] Mezzo giorno e mezzo di fuoco (youtube.com), Fred Zinneman, USA, Mezzogiorno di fuoco, 1952. Riportiamo solo questo esempio, ma non mancano altri riferimenti in tal senso, come il capitolo nel film Sodoma e Gomorra di Pier Paolo Pasolini sia intitolato “Il girone della merda”.
[9] Manzoni P., Merda d’Artista, 1961. Attualmente i barattoli sono conservati in diverse collezioni d’arte pubbliche in tutto il mondo; ad esempio, l’esemplare n. 01 è esposto presso il Museo San Fedele di Milano (parte della Nanda Vigo-Private Collection), il n. 04 alla Tate Modern di Londra, il barattolo n. 80 si trova al Museo del Novecento di Milano, il Centro Georges Pompidou di Parigi possiede la scatoletta n. 31 e al Museum of Modern Art di New York troviamo la n. 14, come riporta Wikipedia, ultima consultazione 14/01/2024.
[10] 17th Century Dutch School. Behind the Pig Sty, Oil on Panel, Unframed, 8.25” x 11.25”. (the-saleroom.com), ultima consultazione 14/01/2024.
[11] Bishop P e Mallie E. The Provisional IRA, Londra, Corgi Books, 1987, p. 350.
[12] Nell’universo folkloristico di queste creature fantastiche si crede che se gli unicorni mangiano un arcobaleno, successivamente la loro cacca avrà lo stesso colore.
[13] Balma-Chaminadour C., Il libro serio della cacca, La digestione oltre i tabù, Treviso, Panda Edizioni, 2020, capitolo 9.
[14] https://www.etimo.it/?term=privato, consultato il 14/01/2024.
[15] Traducibile in italiano con “corporeità”. Il filosofo Edmund Husserl distingue i termini Körper ( = il corpo fisico, il corpo che ognuno ha) e Leib ( = il corpo agente, il corpo che ognuno è).
[16] «L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa», da L’esistenzialismo è un umanismo.
[17] Merleau-Ponty M., Il corpo vissuto, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 83.
[18] Galimberti U., Il corpo, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 20-25.
[19] https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/vantare/, ultima consultazione 14/01/2024.
[20] Portmann A., Le forme viventi, Milano, Adelphi, 1989, p. 16.
[Immagine di copertina] “Pudicizia” o “Verità velata” di Antonio Corradini, 1752, Cappella Sansevero, Napoli.
Gennaro Rollo
Gennaro Rollo, nato a Napoli il 2 febbraio 1985, è laureato in Chimica e assegnista di ricerca presso l’Istituto di Polimeri del CNR in sede a Lecco. Appassionato di linguistica e dialettologia, ha seguito diversi corsi presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Il serraglio.