Il silenzio come dramma familiare

Tutte le famiglie felici si somigliano;

ogni famiglia infelice è invece infelice

a modo suo.                         

Tolstoj, Anna Karenina

Introduzione

Cosa ci spinge al silenzio in quello che dovrebbe essere uno spazio “accogliente”? Com’è, di conseguenza, che si approda a quel huis clos[1] sartriano in cui la comunicazione si fa sempre più difficoltosa e inautentica

Prima di analizzare da vicino le ragioni del silenzio, è opportuno un accenno alla Pragmatica della comunicazione e, in particolar modo, al 1° assioma di Watzlawick,[2] che recita:

Non si può non comunicare. Non esiste un qualcosa che sia un non-comportamento. Le parole, il silenzio o l’attività hanno valore di messaggio, influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale comunicazione.

Paul Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, p. 41[3]

La comunicazione è, dunque, molto complessa e spesso si generano incomprensioni che a loro volta sfociano in situazioni conflittuali. La conflittualità sembra essere una costante dei rapporti famigliari. Ma quali sono le ragioni? Cos’è che spesso scatena incomprensioni e reazioni molto complesse da gestire?

In questa sede cercheremo di spiegare le dinamiche conflittuali che si generano a partire da un non-detto, con il quale si tenta – talora maldestramente – di non scatenarle. Ci occuperemo di dimostrare come alla base del silenzio di uno o più membri della famiglia vi sia una sensazione o una consapevolezza di non essere conformi a un modello di riferimento, a causa del quale si viene giudicati.

Indagheremo più da vicino questo tipo di dinamiche all’interno di alcuni romanzi francesi contemporanei, che stanno dedicando a questi temi un’attenzione particolare.

I romanzi famigliari

Dato che il contenitore “romanzo” si presenta come eccessivamente capiente, è necessario restringere il campo ai romans de famille, ovvero i romanzi famigliari. Qual è l’origine di questo sottogruppo?

Chiariamo subito che non ha a che fare con il testo di FreudIl romanzo familiare dei nevrotici,[3] in cui si parla di una sorta di riorganizzazione immaginaria dei legami da parte di individui che sono confrontati alla questione Edipica.[4] Rifacendosi al testo di Marthe Robert,[5] Roman des origines, origines du roman,[6] i romanzi famigliari trattano uno specifico insieme di dinamiche che uniscono in un luogo chiuso e ristretto (la casa) alcune persone unite da legami di parentela. Occupare lo stesso spazio porta infatti a tensioni che fungono da specchio per una più ampia analisi sociale. 

La famiglia, più generalmente, è il primo luogo attraverso cui si fa esperienza del mondo. Non è un’esperienza neutra, ed è bene esserne consapevoli. È noto a tutti il collegamento diretto tra l’individuo, la cultura e la società in cui si vive. Si parla molto spesso, in effetti, di quanto il contesto sociale influenzi la nostra facoltà del sentire e del percepire. Pasolini – per citare un grande indagatore di dinamiche sociali – aveva descritto molto concretamente l’essenza della determinazione operata dall’ambiente famigliare.

In un capitolo delle Lettere luteraneIl linguaggio delle cose[7] aveva riflettuto su quanto le cose che ci circondano ci plasmino, contribuendo a forgiare quella che è la nostra idea di mondo. All’inizio del saggio sopracitato, Pasolini scrive: «La prima immagine della mia vita è una tenda».[8]

Ebbene, se un oggetto come una tenda ha il potere di influenzare e plasmare la nostra visione, che ne è di quello delle persone che ci crescono o che crescono con noi? Il romanzo famigliare diventa quindi una lente attraverso cui indagare le interazioni dei vari componenti della famiglia, per rendersi conto di come questi ultimi replichino i meccanismi che hanno interiorizzato nel contesto in cui sono cresciuti. La nostra attenzione sarà allora orientata sulle dinamiche conflittuali che si manifestano attraverso un’impossibilità di comunicare autenticamente.

Romanzi polifonici

I romanzi su cui ci soffermeremo potrebbero considerarsi “polifonici” o “corali” nella misura in cui le voci dei diversi personaggi si accavallano, creando talora confusione nel tentativo di identificazione dei personaggi. Spesso ci si arroga il diritto di descrivere i sentimenti/pensieri di qualcun altro, oltre ai propri, banalizzando o addirittura distorcendo quella che è la verità personale. 

Ci soffermeremo sul silenzio di Luc, protagonista del primo romanzo di Laurent Mauvignier,[9] Loin d’eux,[10] pubblicato nel 1999; analizzeremo l’incapacità di esprimersi di Jean, suo padre; ci soffermeremo sui pensieri non espressi di Marthe, sua madre. 

Il titolo ci parla già di un allontanamento, di una rottura, di una partenza. Non ne conosciamo ancora il motivo, non conosciamo le ragioni che hanno spinto Luc “lontano da loro”. Sappiamo però che è stato costretto a farlo. Già a partire dalla prima pagina sappiamo che si è prodotto qualcosa di irreparabile; una figura femminile sta vegliando il corpo del figlio. Un po’ come succede in Cinco horas con Mario,[11] il romanzo di Miguel Delibes,[12] pubblicato nel 1966, in cui Carmen, la moglie di Mario, trascorre la notte al capezzale del defunto marito, tentando – attraverso ricordi e pensieri che le riaffiorano alla mente – di ricostruire l’identità di Mario. Si parla di errori, di incomprensioni e si riflette su quanto poco si possa conoscere l’altro, pur vivendo sotto lo stesso tetto

La figura femminile che parla nel capitolo iniziale di Loin d’eux è Marthe, madre di Luc, il ragazzo morto. Marthe inizia il suo monologo menzionando il segreto che suo figlio portava addosso «come si porta un gioiello».[13] Man mano che ci addentriamo nella lettura, scopriamo il ceto sociale di appartenenza dei genitori: si tratta di una famiglia di proletari, desiderosa di “sistemare” il proprio figlio. 

Il monologo della madre inoltre ci rivela le vessazioni che quest’ultimo doveva subire, a causa del fatto che non lavorava e che non sembrava intenzionato a cercarsi un’occupazione che gli permettesse di mantenersi. Marthe e Jean lo tormentano di continuo con esempi che provengono dal loro “modello famigliare” assunto come paradigma di riferimento. Costringono il figlio a confrontarsi con loro parenti o conoscenti che si guadagnano da vivere e che avevano iniziato a lavorare molto presto. E con ragazzi della sua età che sono già uniti in relazioni durature e prossimi al matrimonio. Tutto questo naturalmente pesa gravemente sull’esistenza di Luc che – contrariamente al loro entourage – non lavora, non ha una ragazza, non ha interessi comuni con chi lo circonda, rimane ore chiuso in camera guardando film o semplicemente riflettendo, senza apparentemente concludere niente (giudizio che Luc stesso ha interiorizzato). 

Scopriamo quindi fin da subito il conformismo della famiglia di Luc e dei suoi parenti più stretti. Ci rendiamo conto della differenza – e di conseguenza della distanza – che c’è tra la visione di mondo dei genitori e quella di Luc. Associamo questa distanza al ben noto transfuge de classe,[14] di cui hanno parlato molti autori degli anni Settanta/Ottanta. Esemplificativa, a questo proposito, è la prospettiva di un giovane, intervistato da Massimo Dursi[15] negli anni Cinquanta, il quale dice:

I nostri genitori fanno sacrifici enormi per farci studiare, per darci una posizione più elevata e non così umiliante come la loro. Poi, quando noi cominciamo ad avanzare negli studi, non riusciamo più a capirli o meglio non siamo più capiti. Troppo diversa la mentalità dei figli studenti da quella dei genitori contadini, e se i figli non sono sufficientemente comprensivi o meglio umani, i rapporti diventano veramente scabrosi.

Massimo Dursi, Giovani soli, p. 25[16]

Massimo Dursi si è chiesto ancora: «Come possono questi genitori aiutare un figlio di cui sanno ormai soddisfare solo i bisogni materiali? Mentre a volte è indispensabile, terribilmente indispensabile, chiedergli: a che cosa pensi? Che cosa ti preoccupa? Perché sei triste?».[17]

I genitori di Luc sono persone molto concrete e pragmatiche e non riescono a tollerare il comportamento del figlio, sottolineando frequentemente che non vogliono “fannulloni” in casa loro. A queste continue violenze, Luc risponde con il silenzio, scudo che si costruisce in seguito a vani tentativi di spiegare le sue ragioni. A loro volta, Marthe e Jean si trovano ad aver a che fare con “messaggi ellittici,[18] che interpretano in modo errato.

Luc, pertanto, si era sentito costretto ad allontanarsi e aveva deciso di provare a lavorare per dimostrare ai suoi genitori che era capace di farlo. Era iniziata, in questo modo, una sorta di corrispondenza parziale, in cui lui raccontava di essere molto stanco, ma felice di essersi finalmente sistemato. Naturalmente queste sue parole nascondevano il profondo malessere che cresceva all’interno del suo corpo, fino all’implosione nel gesto estremo del suicidio. 

Il romanzo è, dunque, un tentativo di ricostruzione e di spiegazione di questo gesto da parte dei membri della famiglia, che non si capacitano di non aver saputo comprendere. C’è la collera di Jean, suo padre, che “ingoia” parole che come proiettili potrebbero ferire gravemente sua moglie; egli si scaglia contro l’amore di Marthe per il figlio, per il suo modo di giustificarlo, per l’esclusione che lei e il figlio mettevano in atto nei suoi confronti, lasciandolo «nel suo mondo reale e banale, sempre insufficiente».[19]

Jean racconta le ingiustizie che subisce mentre lavora duramente e si rende conto di non riuscire a parlare con la sua famiglia, senza urlare, senza rivolgersi in modo brusco e rozzo, rivendicando una piccola parte di quel rispetto che non gli viene riconosciuto all’atelier. Rimpiange di non aver mai detto al figlio di andare a visitare il luogo che lo opprimeva e lo rendeva un bruto, a casa. Avrebbe voluto dirgli che lui non aveva scelto quel lavoro, che nessuno si interrogava sul come e sul perché fosse finito lì, e forse non c’era neanche mai stato il tempo per farlo.

Jean subiva in silenzio il ruolo che in famiglia gli avevano attribuito, il ruolo di chi “abbaia”, quello di chi si lamenta, di chi non capisce le ragioni di un dissenso, di chi non accetta che qualcuno possa volere altro rispetto a ciò che vuole lui. Aveva assunto quel ruolo per incapacità nel comunicare ciò che realmente sentiva; in realtà, si sforzava di capire il comportamento del figlio, si sforzava di convivere con quel suo silenzio ostinato, con la sua passione per i film e lo faceva leggendo le sue lettere quando in casa non c’era nessun altro. 

È in seguito ai pensieri dei genitori, nella seconda parte del romanzo, che finalmente possiamo sentire la voce di Luc, il protagonista assente attorno cui ruota l’intera architettura romanzesca. Sentiamo, insieme con lui, la sua voce chiedere delle banalità ai suoi genitori. Assistiamo al suo progressivo allontanamento da loro, pur non abbandonandoli del tutto. Queste frasi vuote, che lui pronuncia, le odia, odia mentire. Ma constata che esse sono l’ultimo filo che ancora lo unisce alla sua famiglia; si tratta di un filo logoro, sdrucito, ma è l’ultimo cui aggrapparsi. Si tratta di parole banali che coprono il silenzio, nascondono e rattoppano – seppur maldestramente – l’incapacità di una comunicazione autentica. Coprono la collera, il risentimento, l’amarezza, la solitudine in cui ognuno di loro è immerso, non riuscendo a esprimere sinceramente che cosa prova. 

Il silenzio e il parlare per non dire niente si fanno – al contempo – arma e mezzo difensivo.

Il tentativo fallito di una comunicazione autentica

Il padre, verso la fine, menziona un tentativo (fallito) di Luc di aprire un varco comunicativo: il figlio chiede se anche al padre capita, improvvisamente, al lavoro o in altri momenti, di essere attanagliato da momenti di angoscia, che torcono il ventre, e che sono impossibili da nominare o da ricondurre a sensazioni precise. Luc, dopo avergli faticosamente confessato queste sensazioni, si rende conto che il padre non lo capisce e che forse non potrà mai farlo nessun altro. 

Possiamo immaginare Jean, a sua volta, concentrato sulle parole del figlio, che finalmente ha deciso di provare a confidarsi. Lo immaginiamo emozionato e onorato di essere stato scelto come depositario di una confessione di Luc. Dall’altro lato però ci rendiamo conto che lui non capisce le sensazioni che il figlio sta descrivendo, forse per inconsapevolezza, o forse ancora per quella mancanza di tempo per riflettere sulle proprie emozioni/sensazioni di cui aveva parlato prima. Immaginiamo che quella sensazione positiva di apertura del figlio lasci presto spazio a un amaro in bocca; leggiamo poi il suo tentativo di dirgli che capisce, come un “figlio mio, sì, so di cosa stai parlando, non ti trincerare nuovamente dietro un muro di silenzio, per carità, continua”; lo immaginiamo in questo modo Jean, seduto di fronte a suo figlio, desideroso che non smetta di raccontarsi. Purtroppo però Luc capisce che il padre non ha mai provato niente del genere, e che lo sta ascoltando come un padre che non può negare l’ascolto al proprio figlio. 

Jean, a quel punto, si sente impotente di fronte alla presa di coscienza del figlio, di fronte alla sua solitudine e alla sua impossibilità di essere accolto e capito; riflette su come le generazioni precedenti nella sua famiglia si siano, a poco a poco, fatte carico delle parole che i propri avi non erano riusciti a esprimere e giunge alla conclusione che forse Luc è morto di questo, di parole sepolte e compresse (mots enfouis[20]). 

La combinazione di silenzio e di parole vuote la ritroviamo infine in quella petite cammionnette[21] con la quale si recano a Parigi per recuperare gli effetti personali di Luc. Nell’automobile ci sono i genitori, Jean e Marthe, che abbiamo imparato a conoscere, accompagnati da Gilbert e Geneviève, gli zii di Luc; a descrivere la situazione è sua cugina Céline, la sola con cui Luc riuscisse a comunicare intimamente. Céline dice che «la morte procura di tenerci occupati – facendoci risolvere questioni pratiche – al fine di rendere più tollerabile il dolore»[22] ed è quello che in effetti si verifica. In auto regna un’atmosfera cupa, in cui ognuno è immerso nel proprio dolore senza riuscire a dire niente (del resto, c’è qualcosa da dire in questo tipo di circostanze?). 

Le parole che vengono pronunciate sono le indicazioni stradali che Céline detta, di tanto in tanto, in corrispondenza di un incrocio; si parla della speranza di trovare un parcheggio vicino all’appartamento; si parla dei ringraziamenti da fare al padrone di casa, che si è occupato di rimpatriare il corpo, di fare prontamente la dichiarazione del decesso, e ogni altra questione di ordine pratico. 

Il romanzo si conclude con il recupero degli effetti personali di Luc: Marthe infila le affiches tanto care al figlio; Céline si appropria delle lettere da lei scritte e inviate, degli appunti di Luc e delle parole che aveva scritto e in cui nutriva la speranza di un qualche riscatto. Il sogno utopico di Luc era proprio quello di trovare una sorta di linguaggio universale grazie al quale la sua famiglia si sarebbe finalmente capita; il parlare tutti la stessa lingua li avrebbe aiutati ad avere gli stessi occhi con cui guardare il mondo, senza più parole trattenute e incomprensioni.

Conclusione

Con questo lavoro si è dunque cercato di dimostrare come alla base del silenzio in famiglia vi sia una non-conformità rispetto a un ipotetico modello di riferimento; in questo caso, il tacere era causato dalla distanza creatasi tra genitori e figli per via di quel fenomeno che abbiamo definito transfuge de classe, ovvero per via del cambiamento di status sociale dei figli aventi genitori proletari. 

Luc taceva per via della lontananza che sentiva con i suoi genitori, con il posto in cui era cresciuto e con le persone che abitavano lì. Al tempo stesso, però, non riusciva a confessare questa sua sensazione di soffocamento ai genitori, per paura di deluderli e di farli soffrire inutilmente, non accorgendosi che loro avrebbero preferito sentire dal figlio le ragioni di questo silenzio ostinato: avrebbero, insomma, preferito sapere. 

I genitori di Luc, infatti, si trovano a dover convivere con un silenzio inizialmente provvisorio e in seguito eterno. La difficoltà comunicativa – nel caso del romanzo in questione – culmina tragicamente nel suicidio di Luc, che non riesce a convivere con il peso della differenza che diviene distanza e incapacità comunicativa.

Note

[1] Letteralmente l’espressione Huis clos significa “A porte chiuse”. L’espressione è diventata celebre per via dell’omonimo dramma teatrale scritto nel 1944 da Jean-Paul Sartre, celebre scrittore esistenzialista della Rive gauche, il quale descrive la condizione umana come infernale perché costantemente esposta al giudizio altrui.

[2] Psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, eminente esponente della statunitense Scuola di Palo Alto, nonché seguace del costruttivismo.

[3]  S. Freud, Il motto di spirito e altri scritti 1905-1908, in Opere di S. Freud, vol. 5, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.

[4] Secondo l’Enciclopedia Treccani, il complesso di Edipo positivo si manifesta con un desiderio amoroso del bambino verso il genitore di sesso opposto, mentre il genitore dello stesso sesso, vissuto come un rivale, è oggetto di sentimenti ostili.

[5] Marthe Robert (1914-1996) è stata una critica letteraria francese, conosciuta e apprezzata per la sua interpretazione psicanalitica della letteratura. Ha tradotto autori germanofoni di grande rilievo ed è una specialista dell’opera di Kafka.

[6] Cfr. Robert M., Roman des origines, origines du roman (1972), Paris, Gallimard, 1977.

[7] Cfr. Pasolini P., Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976.

[8] Ibidem, p. 18.

[9]  Laurent Mauvignier (Tours, 1967) è uno scrittore molto apprezzato in Francia, per i suoi sei romanzi, le sue opere teatrali e i suoi saggi. Ha inoltre vinto numerosi premi di critica letteraria.

[10] Mauvignier L., Loin d’eux, Paris, Les Editions de Minuit, 1999.

[11] Delibes M., Cinco horas con Mario (1966), Barcelona, Austral, 2010.

[12] Miguel Delibes (Valladolid, 1920-2010) si fece conoscere principalmente per i suoi numerosi romanzi, per cui ricevette importanti premi di critica letteraria, tra cui il Premio Cervantes. Fu membro della Real Academia Española.

[13] Mauvignier L., Loin d’eux, op. cit., p. 9.

[14] Per transfuge de classe o transfuge sociale, o transclasse, si intende il cambiamento (migliorativo) di status sociale di un individuo. Pierre Bourdieu, Annie Ernaux, Edouard Louis sono solo alcuni degli autori che l’hanno vissuto in prima persona.

[15] Massimo Dursi (Bologna, 1902-1982) è stato un importante giornalista e scrittore italiano. Ha scritto racconti pubblicati su riviste, opere teatrali e un solo romanzo.

[16] Dursi M., Giovani soli, (1958), Bologna, Il Mulino, p. 25.

[17] Madrussan E., Crisi della cultura e della coscienza pedagogica, Como-Pavia, Ibis, 2019, p. 57. 

[18] Per “messaggi ellittici” si fa riferimento a messaggi eccessivamente sintetici (dall’ellissi narrativa).

[19] Mauvignier L., Loin d’eux, op. cit., p. 26.

[20] Ibidem, p. 81.

[21] Ibidem, p. 120.

[22] Ibidem, p. 118.

Fonti

In copertina: Edward Hopper, Room in New York, dipinto a olio, 1932.

BARTHÉLEMY Claude e DEMANGEAT Michel, Imaginaire & Inconscient, «Le roman familial et son expression littéraire. René Crevel», 2006/2 (n° 18), pp. 55-70: https://www.cairn.info/revue-imaginaire-et-inconscient-2006-2-page-55.htm.

BEAVIN Janet Helmick, JACKSON Don D., WATZLAWICK Paul, Pragmatica della comunicazione, Roma, Astrolabio, 1967.

COYAULT Sylviane, JÉRUSALEM Christine et TURIN Gaspard, éds. Le Roman contemporain de la famille, 2015, «La Revue des lettres modernes», Écritures contemporaines 12.

DURSI Massimo, Giovani soli, Bologna, Il Mulino, 1958.

MADRUSSAN Elena, Crisi della cultura e della coscienza pedagogica, Como-Pavia, Ibis, 2019.

MAUVIGNIER Laurent, Loin d’eux, Paris, Les Editions de Minuit, 1999.

ONCINS Valentine, «Introduction» Le silence et le livre. Éds. Evelyne Lloze et Valentine Oncins. Saint-Étienne: Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2010.

ROBERT Marthe, Roman des origines, origines du roman (1972) Paris, Gallimard, 1977.

THIBAUDET Antoine, «Le Roman domestique» (1er avril 1924), repris dans Albert Thibaudet, Réflexions sur le roman, Paris, Gallimard, 1938 [édition de Jean Paulhan] puis dans Réflexions sur la littérature, Paris, Gallimard, «Quarto», [édition d’Antoine Compagnon et Christophe Pradeau], 2007.

TISSERON Serge, Nos secrets de famille, Paris, Ramsay, 1996.

Debora Sciolla

Debora Sciolla è nata a Ceva (CN) nel 1998. Si è laureata in Lingue e Letterature Moderne e ha concluso il suo percorso Magistrale con una tesi letteraria sulle Difficoltà comunicative del nucleo familiare nel romanzo francese contemporaneo. Ha insegnato francese per un anno in una scuola media. È lettrice per il noto premio letterario italiano “Calvino” e sta insegnando italiano in un istituto superiore in Francia.

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