Verosimile e inverosimile: Policleto secondo Luciano

 

75 Τὸ δε σῶμα κατᾲ τὸν Πολυκλείτου κανόνα ἤδη ἐπιδείξιεν μοι δοκῶ· μήτε γὰρ ὑψηλὸς ἄγαν ἔστω καὶ πέρα τοῦ μετρίου ἐπιμήκης μήτε ταπεινὸς καὶ ναννῶδης τὴν φύσιν, αλλ’ ἔμμετρος ἀκριβῶς, οὔτε πολύσαρκος – ἀπίθανον γάρ – οὔτε λεπτὸς ἐς ὑπερβολήν – σκελετῶδες τοῦτο καὶ νεκρικόν -.

75 Il corpo credo che si mostrerà secondo il canone di Policleto: non sia troppo alto e slancia-to oltre misura, né basso e simile a un nano per natura, ma perfettamente proporzionato, né corpulento – sarebbe inverosimile – né eccessivamente magro – somiglierebbe a uno scheletro e a un cadavere.

                                                                                                                                                 Luciano, De Saltatione, 751[1]

Introduzione

A Policleto, scultore, bronzista e teorico nato, secondo la maggioranza delle fonti, ad Argo nel V secolo a.C., viene attribuito un trattato perduto. Passato alla storia come Canone, venne composto presumibilmente intorno al 450 a.C. A noi è noto solo grazie a frammenti e brevi citazioni in opere successive.[2]

Il Canone è il primo esempio conosciuto di un’esposizione programmatica della dottrina delle proporzioni, disciplina tramandata fino ai nostri giorni grazie a Vitruvio, architetto e trattatista romano vissuto nel I secolo a.C. Sorte nel laboratorio dell’artista, le regole di Policleto erano destinate in principio solamente a un uso pratico. Si ponevano come guida per la realizzazione dell’opera. Non si può comunque negare che esse abbiano una connessione col pensiero filosofico greco che tutto pervade. Specialmente con la speculazione pitagorica, strettamente legata alla teoria artistica più stimata dai Greci: quella musicale.

Il concetto della καλοκαγαθία (kalokagathia, cioè l’ideale di bellezza fisica e morale, inteso come perfezione), stringe come in un nodo il bello e il buono. Può riassumere bene lo scopo dell’opera policletea: la rappresentazione ideale di un uomo armonicamente formato, sia fisicamente che spiritualmente. È questo il principio della ricerca di una perfezione formale del corpo, esprimibile tramite i numeri.

Tuttavia, già nell’Antichità, con Socrate e poi soprattutto in ambito neoplatonico,[3] si manifestò una fondata opposizione a queste teorie. È l’annuncio della bellezza spirituale, di certo non suscettibile di misurazione, e dotata di quel rilievo morale che non le verrà più a mancare.[4] Forse non è un caso che già l’autore stesso del Canone commise delle infrazioni alle proprie regole.[5]

Come Canone[6] fu appellata anche una statua di Policleto, il Doriforo. Il portatore di lancia incedente è a noi noto da copie marmoree romane, plasmate sull’originale bronzeo perduto. Dovette costituire il modello ideale e programmatico delle regole del Trattato. Recenti studi hanno però messo in dubbio questa identificazione, suggerendo, sulla base di un passo di Plinio (Nat. Hist., XXXIV 55-56), che in realtà il Doriforo, e quindi il Canone, andrebbero identificati nell’Efebo Westmacott, opera più matura di Policleto.[7]

A ogni modo, introduciamo l’autore del passo citato. A differenza di quanto accade per Socrate e Platone, è Luciano stesso a informarci dei suoi rapporti, veri o presunti, con la scultura. Ne Il sogno o La vita di Luciano l’autore ci racconta di come, adolescente, fu iniziato al duro mestiere di scultore dallo zio materno. 

Tuttavia, a seguito di un sogno, per così dire, rivelatore, non esitò a seguire la sua vera passione. Luciano fu infatti retore e filosofo, autore di una grande varietà di testi in lingua greca, i cui denominatori comuni sono la satira e la critica. Nato a Samotracia intorno al 120 d.C., visse poi ad Atene come esponente della seconda Sofistica. Era vicino all’ambiente epicureo, nonché alla dinastia antoninea. Di madrelingua siriaca, scrisse nel dialetto attico divenuto lo standard del greco antico, con una prosa fortemente ironica e pungente nei confronti delle scuole filosofiche, della superstizione e delle pratiche religiose.

La pantomima: la misura perfetta

Il passo del De Saltatione (La danza) proposto in incipit è una delle poche attestazioni che riproduce sommariamente alcuni punti fondamentali del Canone. Luciano, però, vi accenna anche in un’altra opera: ne La Morte di Peregrino, infatti, l’autore avvicina la danza alle altre arti mimetiche, quali scultura e pittura. Le personificazioni di danza, scultura e pittura sono accomunate anche nel De Saltatione. Tutte e tre cercano di imitare la bellezza delle pose (εὐρυθμία: eurythmia) e, stando a Luciano, in questa disciplina Fidia e Apelle (rispettivamente lo scultore e il pittore più stimati dell’Antichità) non sembrano affatto superare l’arte danzata (Salt. 35).

Nell’incertezza relativa alla cronologia delle opere di Luciano, pochi hanno dubitato della datazione de La danza.[8] Si è subito pensato a una risposta indiretta all’invettiva del retore misio Elio Aristide. Nel dibattito che opponeva sostenitori e detrattori della pantomima, Aristide aveva difeso la posizione di questi ultimi. È un fatto singolare che, nonostante la continua avversione della Chiesa dei primi secoli  ̶  dimostrata dai numerosi accenni negativi di Tertulliano, Arnobio e Agostino  ̶  di tutte le opere presumibilmente composte intorno alla querelle sul valore della pantomima, gli amanuensi medievali ci abbiano tramandato solo i testi favorevoli.

Ne è prova il fatto che l’opera di Elio Aristide si è persa nel primo Medioevo, mentre il trattato di Luciano (II sec. d.C.), ma anche quello di Coricio (V sec. d.C.) e l’orazione di Libanio (IV sec. d.C.) sono state fedelmente ricopiate e sono pervenute fino a noi. Da ciò che si è potuto ricavare dalle opere superstiti (per esempio dalle parole di Cratone, come vedremo a breve), i denigratori della pantomima accusavano questo genere teatrale di immoralità ed effeminatezza. Implicazioni di carattere politico, poi, spingevano gli oratori a sostenere o meno quest’arte per compiacere o contrariare l’imperatore in carica.[9]

Poiché l’elenco delle opere che i manoscritti attribuiscono a Luciano comprende un discreto numero di dialoghi sicuramente apocrifi, anche il De Saltatione è stato sospettato di non essere autentico, data la facilità di riproduzione dello stile e della lingua della cosiddetta seconda Sofistica. Se però la lingua sembra essere proprio quella del poligrafo di Samosata, è l’architettura generale dell’opera a destare qualche perplessità. Formalmente un dialogo, La danza è in realtà un vero e proprio monologo di Licino, trasparente alter-ego dell’autore e protagonista di tanti altri scritti

Cratone, il poco loquace interlocutore, pronuncia appena sei battute. Nella prima riassume i luoghi comuni della critica alla pantomima, permettendo così a Luciano-Licino di articolare la propria tesi difensiva. In quella finale riconosce frettolosamente di aver sbagliato e si dichiara convinto delle ragioni pronunciate da Licino in favore di questa forma di spettacolo. Il lungo discorso di quest’ultimo non vuole essere un trattato. Il suo obiettivo, dichiarato dall’autore, è quello di lodare lo spettacolo danzato che, ai suoi tempi, riscuoteva maggiore successo  ̶  la pantomima appunto  ̶  nobilitandola tramite le qualità divine della danza che in essa si riversano. Tale disciplina era parte fondamentale dell’educazione dei giovani: Platone (Lg. II 654 a9), infatti, usa il termine ἀχόρευτος (achoreutos: letteralmente “privo di danza”) come sinonimo di “ignorante”, e Aristotele sottolinea l’utilità dell’insegnamento della danza per la formazione culturale dei giovani e per la purificazione delle passioni.

I Greci hanno sempre considerato la danza mimetica; Aristotele (Poet.1, 1447a26-28), infatti, asserisce che i danzatori, con il ritmo dei loro gesti, riescono a rappresentare i caratteri, le passioni e le azioni. Il pantomimo in particolare era un μίμος[10] (mimos), cioè un attore che, senza l’uso della voce, ma tramite i gesti ritmici della danza e spesso con l’ausilio di maschere, era in grado di rappresentare ogni cosa (παντός, pantòs, tutto, appunto): divinità, uomini, animali, sentimenti; un danzatore quindi, con doti di trasformista e di giocoliere, talvolta persino di acrobata.[11]

La prima parte dell’opera (Salt. 1-26) procede in maniera abbastanza casuale, enumerando le regioni del mondo greco[12] e le loro danze, e citando Omero a conferma della nobiltà di quest’arte (non a caso nello scudo di Achille incontriamo la raffigurazione di una pista da ballo). I capitoli successivi del De Saltatione (26-31) mostrano il degrado raggiunto dalle rappresentazioni teatrali che un tempo erano motivo d’orgoglio per la Grecia.

Nella sezione seguente (35-67) si passa a elencare e valutare le qualità che il pantomimo deve possedere: memoria, chiarezza e capacità interpretativa (doti richieste anche al buon retore), nonché grande cultura e ottima conoscenza della mitologia classica. Nei capitoli finali (68-85), il filo della narrazione si perde nel definire i caratteri peculiari della pantomima: grande varietà di strumenti musicali e semplicità della recitazione monodica. 

Viene richiamato poi il giudizio di Platone sulla danza, che invece aveva della pantomima una pessima opinione.[13] Licino però ribadisce che essa offre un esempio dell’associazione fra bellezza del corpo e dell’anima, e comprende la raffigurazione del pensiero e il movimento fisico. Si ricorda inoltre che gli spettacoli di danza hanno il pregio di migliorare lo spettatore. E, proprio nell’ultima battuta, Cratone, seguendo la teoria aristotelica della catarsi, derivata probabilmente dall’estetica pitagorica, prega appunto l’amico di riservargli un posto al prossimo spettacolo, così che anche lui possa uscirne, in un certo senso, più saggio.

Non sono trascurate nemmeno le doti fisiche del perfetto danzatore ed è proprio a questo proposito che Luciano sceglie come modello le proporzioni delle statue di Policleto; le inverosimili violazioni al suo canone sono raccontate attraverso una serie di spassosi aneddoti (76) che hanno come protagonisti attori piccoli o giganteschi.[14] Gli abitanti di Antiochia, per esempio, che onoravano la pantomima in modo particolare, criticarono un attore piccolo di statura che doveva interpretare Ettore, urlandogli che piuttosto somigliava ad Astianatte. A un altro smisuratamente alto che impersonava Capaneo nell’atto di attaccare le mura di Tebe, gridarono di scavalcare il muro, perché non aveva bisogno della scala.

Il termine ἀπίθανον (apithanon: inverosimile), nel suo opposto positivo, è probabilmente mutuato dal lessico dell’arte oratoria e della poesia.[15] Sarebbe inverosimile che i danzatori, votati a un’arte mimetica nobile e armoniosa, avessero corpi sproporzionati e non conformi al canone di Policleto. In essi, invece, si riconosce il πρέπον (prepon: il conveniente, il giusto) aristotelico, una misura perfetta insomma (ἔμμετρος ἀκριβῶς: emmetros akribós) che non ammette eccessi di nessun tipo.

È la stessa teoria che riscontriamo in Aristotele (Poet.7, 1450b32-39 -1451a1-15) quando viene definita la lunghezza adatta alla favola: il bello, sia esso un essere animato o un qualsiasi oggetto, non solo deve presentare un certo ordine fra le parti, ma deve anche avere una sua propria grandezza. La bellezza consta appunto di grandezza e ordine, perciò non può essere bello un organismo eccessivamente piccolo, né uno eccessivamente grande, perché nel primo caso la vista si confonde e nel secondo non può abbracciare tutto l’oggetto nel suo insieme. Di conseguenza, anche negli organismi viventi deve esserci una certa grandezza, che permetta di essere facilmente visibile con un unico sguardo. Come stabilire questa grandezza? Per quel che riguarda la favola, essa deve avere una lunghezza tale per cui sia possibile ai personaggi passare dall’infelicità alla felicità o viceversa, senza valicare le leggi della verosimiglianza e della necessità; e così sarà per i corpi.

Verosimiglianza e realtà

Stabilire la giusta grandezza e il corretto significato di μέγεθος (megethos) in riferimento alle arti visive è complicato dal fatto che il termine ha il valore letterale di taglia/statura, ma an-che quello metaforico di grandezza/magnificenza, spesso impiegato dall’arte retorica.[16] Il nostro passo di Luciano sembra accogliere l’ultimo grado della tripartizione della μίμησις operata da Aristotele: non raffigurazione delle cose come sono, né di come si crede che siano, ma di come dovrebbero essere, proporzionate, armoniose e soprattutto verosimili.

Il concetto di “verosimile” assume, perciò, una valenza diversa da quella di “reale”. Difficile stabilire i limiti e le convergenze di verosimiglianza e realtà, ma possiamo notare come Policleto, stando all’interpretazione di Luciano, attribuisca decisamente maggior rilievo a una raffigurazione corporea verosimile, piuttosto che naturale. Viene da chiedersi, dunque, se la verosimiglianza stessa non sia un’astrazione, lontana dall’oggettività naturale, ma vicina ai canoni ideali. Le regole dello scultore, che oggi potrebbero suonarci quasi discriminatorie (per usare un termine molto attuale), furono forse già sottese alla raffigurazione di un corpo che non aspirava alla realtà, ma alla verosimiglianza. Oggigiorno i concetti stessi di “ideale” e di “bellezza oggettiva” non sono più accettabili, tuttavia non possono sorprenderci in una cultura come quella greca classica, in cui, come abbiamo visto, il bello non si scinde dal giusto (ma forse persino il giusto nella società moderna non è più oggettivo).

Conclusione

In conclusione, per riassumere quanto detto con una metafora forse fin troppo semplicistica: non tutti gli uomini saranno ovviamente come il Doriforo (sia esso da identificare con l’una o l’altra statua), ma l’attore mimetico, uomo colto e sensibile, votato alla messa in scena delle passioni umane, dovrà rispecchiare le proporzioni ideali, per soddisfare questa verosimiglianza che forse dovremmo indagare, più che sul piano fisico, su quello morale.

Note

[1] Luciano, De Saltatione, (1836-1841), Lipsia, ed. a cura di Jacobitz C., 1851.

[2] Le citazioni di Policleto e del suo Canone sono, come avremo modo di vedere nei prossimi articoli, trasversali: lo scultore è citato da letterati e filosofi, quali Luciano ed Eliano (II d.C.), ma anche dal medico Galeno (II d.C.), dagli storici Senofonte (IV a.C.) e Plutarco (I d.C.), dallo scienziato Filone di Bisanzio (III a.C.).

[3]  Con Neoplatonismo intendiamo l’interpretazione filosofica che venne data al pensiero di Platone nel tardo ellenismo (III d.C.). Il difficile momento storico, alle soglie della caduta dell’Impero romano d’Occidente, fu ricco di nuove correnti filosofiche e religiose (quali il Cristianesimo) che annunciavano una prospettiva salvifica. Padre e fra i maggiori esponenti del Neoplatonismo, Plotino (203 d.C. ca – 270 d.C.) studiò ad Alessandria d’Egitto e poi, trasferitosi a Roma intorno ai quarant’anni, fondò la scuola neoplatonica. Tutto ciò che sappiamo del filosofo ci deriva dalla Vita di Plotino, opera del suo allievo Porfirio, composta come prefazione delle Enneadi, raccolta degli scritti del maestro, pubblicata da Porfirio.

[4] Shlosser Magnino J., La letteratura artistica, Firenze, La nuova Italia Editrice, 1964, pp. 65 e 66.

[5] Le scrupolose misurazioni effettuate sulle copie del Doriforo hanno messo in luce queste infrazioni. Se vadano esse ascritte alle copie o già all’originale policleteo rimane fonte di dibattito.

[6] Per quanto riguarda il termine “canone”, l’articolo si avvarrà di tale distinzione: corsivo quando riferito al trattato scritto da Policleto; maiuscolo tondo, come in questo caso, quando indica il nome attribuito alla statua; minuscolo tondo quando semplicemente allude all’insieme di regole attuate dallo scultore.

[7] Per un approfondimento su quanto qui accennato si rimanda a Franciosi V., Il “Doriforo” di Policleto, Napoli, Jovene Editore, 2003.

[8] Va specificato che tradurre così il titolo dell’opera crea un’inevitabile imprecisione, in quanto il termine greco ὂρχησις (orchesis) subisce nel corso del testo uno slittamento semantico che lo porta a indicare non un qualunque tipo di danza, ma esclusivamente la pantomima.

[9]  Savarese N., L’orazione di Libanio in difesa della pantomima, «Dioniso. Annale della Fondazione INDA» 2 (2003) Palermo, Palumbo, pp. 9 e 10.

[10] Il sostantivo è testimoniato per la prima volta in un frammento degli Edoni di Eschilo, citato da Strabone (10.3.16).

[11] Savarese N., L’orazione di Libanio in difesa della pantomima, «Dioniso. Annale della Fondazione INDA» 2 (2003), Palermo, Palumbo, p. 1.

[12] Bier H., De Saltatione pantomimorum, dissert., Bonn, 1917: propone l’origine egiziana della pantomima.

[13] Per l’analisi del giudizio platonico, non univoco, si rimanda a Schuhl P.-M., Platone et l’art de son temps, «Minute» 5 (1994) e Janaway C., Images of Excellence. Plato’s Critique of Arts, Oxford, 1995.

[14] Beta S. ( a cura di), Luciano, La danza, Venezia, Marsilio Editori, 1992, pp. 9-44.

[15] Stessa osservazione si può fare per la ψυχαγωγία (psychagogia) senofontea. Cfr. Bevilacqua F., (a cura di), Memorabili di Senofonte, Torino, Utet, 2010, p. 560.

[16] DPollitt J.J., The Ancient View of Greek Art. Criticism, History, and Terminology, Londra, Yale Russian and East European, 1974, p. 199.

Fonti

ARISTOTELE, Poetica, tr. di M. Valgimigli, Roma-Bari, Editori Laterza, 1992.

BETA Simone (a cura di), Luciano. La danza, Venezia, Marsilio Editori, 1992.

BEVILACQUA Fiorenza (a cura di), Memorabili di Senofonte, Torino, Utet, 2010.

FRANCIOSI Vincenzo, Il “Doriforo” di Policleto, Napoli, Jovene Editore, 2003.

JANAWAY Christopher, Images of Excellence. Plato’s Critique of Arts, Oxford, UP, 1995.

LUCIANO, De Saltatione (1836-1841), ed. di Jacobitz C., Lipsia, 1851.

SAVARESE Nicola, L’orazione di Libanio in difesa della pantomima, «Dioniso. Annale della Fondazione INDA» 2 (2003), Palermo, Palumbo.

SCHLOSSER MAGNINO Julius, La letteratura artistica (1935), Firenze, La nuova Italia Editrice, 1964.

SCHUHL Pierre M., Platone et l’art de son temps, «Minute» 5 (1952), Parigi, 1994.

POLLITT Jerome J., The Ancient View of Greek Art. Criticism, History, and Terminology, Londra, Yale Russian and East European, 1974.

Giorgia Angelica Chatzidakis

Giorgia, nata a Bologna nel 1995, ha conseguito la Laurea Triennale in Lettere Classiche e quella Magistrale in Beni archeologici presso l’Università di Bologna. Dopo un tirocinio alla Scuola archeologica italiana di Atene, prosegue gli studi alla Specializzazione di Bologna. Appassionata di turismo archeologico e artistico, da più di un anno si occupa di editing per una rivista culturale.

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