Il linguaggio inclusivo come effetto dell’evoluzione sociale

Introduzione

«L’evoluzione sociale non serve al popolo, se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero», cantava Franco Battiato.[1] Con questa manciata di versi sintetizzava il principio fondamentale sostenuto da ogni studioso che a oggi si occupi della questione del linguaggio inclusivo

Insistendo sulla stessa linea, si potrebbe citare anche Nanni Moretti che in Palombella rossa tuona: «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!»[2]

Nei mesi precedenti, proprio sulle pagine di VIA – Vivere in Alto[3] abbiamo provato a motivare con il supporto del pensiero di esimi studiosi della lingua, ma anche di antropologi, psicologi e filosofi,[4] l’impatto delle parole sul modo in cui intendiamo il mondo e viceversa. 

Eppure, benché chi porti avanti un discorso sperimentale sul linguaggio inclusivo lo faccia essenzialmente in toni pacati di apertura e dialogo (sarebbe una contraddizione piuttosto palese se così non fosse), taluni oppositori si scagliano con veemenza e ardore contro l’imposizione – secondo il loro modo di vedere – di una regola calata dall’alto che andrebbe a modificare in modo brutale e innaturale la lingua italiana.

Ma è proprio in questa obiezione che si coglie quanto l’intenzione di questi esperimenti sia stata travisata o quantomeno mal interpretata.

La petizione contro lo schwa

In questo scenario, finora limitato a qualche scelta audace da parte di poche case editrici[5] o a discussioni più o meno accademiche sull’uso di simboli inclusivi,[6] e che aveva raggiunto l’opinione pubblica in maniera accidentale, un avvenimento ha scombussolato gli equilibri, rimestato le placide acque in cui si era arenata la discussione.

L’evento in questione è la pubblicazione di un documento del Ministero dell’Università[7] per la «procedura di conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale di professorə universitario di prima e seconda fascia».

Questo documento ha portato gli oppositori a far partire una petizione[8] nella quale si richiedeva formalmente (il che è di per sé un evento storicamente rilevante) la messa al bando del simbolo fonetico dello schwa, la e rovesciata (ə), come alternativa del maschile sovraesteso di cui abbiamo parlato anche noi attraverso l’intervista alla sociolinguista Vera Gheno.[9]

La cassa di risonanza della petizione è la lista di nomi illustri che appoggiano la causa, personalità come il filosofo Massimo Cacciari, la poetessa Edith Bruck. Ma anche il professore Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca. Proprio quest’ultima firma ha un peso specifico sostanziale, non tanto per l’alta rappresentanza dell’Accademia. Quanto per il fatto che lo stesso Sabatini fu firmatario di un documento presentato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’inclusione del femminile nei documenti ufficiali.[10]

Quella che potrebbe apparire come una stridente contraddizione svela in realtà il vero intento di questi esperimenti linguistici, che affonda in ragioni sociali, culturali e politiche.

Ma quali sono questi simboli e perché da una parte sono proposti e dall’altra, con eguale fervore, criticati?

I simboli per un linguaggio inclusivo

Gli esperimenti sono tanti. Alcuni sono nel tempo spariti, altri sono stati introdotti. Qualcuno fa breccia maggiormente, qualcun altro meno. Niente di scandaloso: è nella natura degli esperimenti fallire. E per chi fa ricerca, il fallimento – lungi dall’avere una connotazione negativa – è comunque un risultato del quale tenere conto.

Per una rapida e comunque parziale lista delle alternative proposte, si prende come punto di riferimento il tradizionale maschile sovraesteso: “Cari tutti”.

Di seguito viene riportato come verrebbe modificato in base alle diverse soluzioni:

  • La doppia forma: “Care tutte e cari tutti”.
  • La circonlocuzione: “Care persone”.
  • Il femminile sovraesteso: “Care tutte”.
  • L’omissione dell’ultima lettera: “Car tutt”.
  • Il trattino basso: “Car_ tutt_”.
  • L’asterisco: “car* tutt*”.
  • L’apostrofo: “Car’ tutt’”.
  • La chiocciola: “Car@ tutt@”.
  • Lo schwa: “Carə tuttə”.
  • La -u: “Caru tuttu”.
  • La -x: “Carx tuttx”.
  • La -y: “Cary tutty”.
  • L’inserimento di entrambe le desinenze: “Carei tuttei”.
  • Entrambe le desinenze divise dal punto: “Care.i tutte.i”.
  • La seconda desinenza tra parentesi: “Cari(e) tutti(e)”.
  • Le desinenze divise con la barra: “Care/i tutte/i”.

Per ognuna di queste proposte è possibile enumerare pro e contro (così come in buona sostanza si fa con il maschile sovraesteso attualmente in uso).

Alcune tendono a rendere il testo illeggibile ai più. La forma con la barra, che in un testo più complesso potrebbe presentare una sequenza troppo lunga di eccezioni, mina di fatto la leggibilità del documento. Lo stesso vale per l’inserimento di entrambe le desinenze con il punto o per l’uso di -u, -x e -y, che inoltre potrebbero conferire al testo una parvenza straniera.

Alcune proposte potrebbero invece essere particolarmente ostiche per una minoranza di lettori. Questa la critica che si muove all’uso dello schwa o all’inserimento di entrambe le desinenze, che metterebbero in particolare difficoltà chi soffre di dislessia. 

Per altre proposte, invece, vi è una difficoltà nel momento in cui il testo dovesse essere letto, come per esempio l’ipotesi dell’utilizzo dell’asterisco o della chiocciola.

Ma allora, se sono tutte così complicate, se presentano ognuna un limite notevole e non sormontabile, perché ci si arrovella in modo tanto ostinato nel trovare una soluzione per superare il maschile sovraesteso?

L'insostenibile leggerezza delle parole

Il rischio più alto corso dal trittico di articoli che vi abbiamo proposto è quello di risultare ripetitivi. Ma siamo convinti che le idee nuove si veicolino costruendo ponti. E i ponti, per quanto ci si possa affidare a un architetto particolarmente creativo, restano delle strutture perlopiù lineari. Strutture che più di tutto assolvono al compito di consentire il transito lì dove prima vi era un ostacolo. Vale la pena, dunque, rischiare il déja vu, la sensazione di già letto, pur di sottolineare l’importanza del concetto.

Assodato dunque che a livello cognitivo la lingua non è neutra, occorre vincere la pigrizia e l’abitudine all’addestramento monolinguistico cui siamo stati abituati dalla scuola tradizionale, la quale ci ha privato di immensi campi di applicazione didattica, di sperimentazione, di intelligente costruzione di esperienze comunicative.

«La scuola tradizionale», scrive il linguista Tullio De Mauro, «ha insegnato come si deve dire una cosa. La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale fantastico infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati nel momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa».[11]

Sarebbe opportuno avere bene a mente che quando comunichiamo con qualcuno, sia attraverso la forma verbale che attraverso la scrittura, siamo di fronte a una sconfinata possibilità di modi per portare quello che intendiamo dire.

Utilizziamo il nostro codice comunicativo verso il codice comunicativo di chi ci ascolta affinché questo possa comprendere il più possibile ciò che vogliamo intendere

Le parole che scegliamo sono solo uno dei possibili modi per arrivare all’altro.[12] In una società che contempla l’alterità, la diversità, l’unicità di ogni singolo individuo, appare chiaro che il linguaggio si plasmi in maniera naturale. Coerente con la struttura stessa della comunità nella quale si applica.

La tendenza alla specializzazione ci ha condotto all’idea di una società suddivisa in compartimenti stagni, impermeabili gli uni agli altri. Ma è bene ricordare che si tratta di artifici metodologici che servono a scindere ambiti tra loro in realtà correlati in rapporti di causa-effetto reciproci. 

È il caso dell’interazione società/cultura: due elementi, questi, che possono essere distinti in modo indipendente solo attraverso un artificio ma che in realtà sono caratterizzate da situazioni di forte bivalenza.

Assunta questa consapevolezza, si coglie allora il senso di esperimenti linguistici che il più delle volte già sul nascere non hanno la benché minima aspirazione o aspettativa di soppiantare la forma in uso. 

Ciononostante, consci che il sostrato sociale dietro una questione culturale fluisce senza soluzione di continuità nel modo in cui la società vede le cose, sulla base di come le descrive, ecco che questi esperimenti rivelano l’intenzione più profonda da parte di chi li propone.

Non la pretesa (un po’ ingenua)  di cambiare la lingua, bensì il traslare la discussione sul piano sociale, certi che questo a sua volta produrrà modifiche culturali nell’uso delle parole.[13]

La diatriba tra il dire e il fare è ben nota. A titolo di esempio, per i sostenitori del fare, più che prestare attenzione a utilizzare la formula “diversamente abile” in luogo di “disabile”, bisognerebbe abbattere le barriere architettoniche esistenti ed evitare di costruirne di nuove. Tale ragionamento tende a sottovalutare il rapporto mente-mondo. Talvolta è la mente ad adattarsi al mondo e talaltre è il mondo a cambiare per adattarsi ai desideri e alle intenzioni della mente.

Questo significa che non si tratta solo di un vezzo lessicale distinguere una persona come disabile o con disabilità. Nel processo mentale, la prima forma comporta una personificazione della condizione, come a dire: io sono disabile, io sono un problema per la società. Nella seconda forma, la persona con disabilità è da subito riconosciuta come avente necessità, suo malgrado, che la società si impegni a sostenerla e agevolarla, sia dal punto di vista architettonico sia da quello organizzativo o strumentale, per superare ostacoli posti come requisiti minimi per frequentare il vivere civile. 

Da una parte una persona che è la sua malattia, è il problema; dall’altra una persona con una malattia, con un problema. L’inserimento di una sola preposizione porta a un’enorme differenza dal punto di vista cognitivo.

Il filosofo John Searle[14] ha incentrato molti dei suoi studi sul carattere materiale della coscienza, di come questa implicasse l’uso di un determinato tipo di linguaggio. E di come questo, ancora una volta, si riflettesse sulla struttura della società. Non solo. Secondo il ragionamento di Searle è possibile riconoscere come sostanzialmente sia anche vero l’opposto: in un rapporto reciproco continuo, la società influenzerà la coscienza e la coscienza influenzerà la società.[15]

Non conclude

La lingua è in continua mutazione, considerarla vincolata alla volontà di un testo canonico è un errore che gli studiosi sanno di non dover commettere. Parafrasando Bauman potremmo dire che la lingua è liquida.[16]

Non saranno gli accademici a sigillarla, né gli sperimentatori a deturparla. Saranno i parlanti i legittimi proprietari delle regole della lingua come strumento di comunicazione. Loro potranno decidere cosa favorisce o meno lo scambio di informazioni attraverso il mezzo verbale o scritto

Si giunge alla chiusura di questa serie di articoli con la consapevolezza di non approdare ad alcuna conclusione che possa dirsi tale. Abbiamo insistito su argomenti cruciali, sottolineato forse più del necessario alcuni concetti. Ma uno più di tutti ci auguriamo sia passato.

Serve appropriarsi con un certo grado di urgenza del rovesciamento del paradigma di partenza. Non è il linguaggio inclusivo a generare l’evoluzione sociale, ma è l’evoluzione sociale che ha come effetto l’uso di un linguaggio inclusivo

In altre parole: non si parte dal linguaggio inclusivo, al linguaggio inclusivo si arriva.

Note

[1] Battiato F., New frontiers, L’arca di Noe (1982) Milano, EMI, 1982.

[2] Moretti N., Palombella rossa (1989), Roma, Titanus,1989.

[3]  https://www.vivereinalto.it/2021/11/14/dietro-il-linguaggio/, ultima consultazione il 5 aprile 2022.

[4] Sono stati citati, ad esempio, lo psicologo Lev S. Vygotskij, il linguista Francesco Sabatini, il filosofo Ludwig Wittgenstein.

[5] Un esempio è la casa editrice Effequ, che ha redatto norme redazionali (consultabili all’indirizzo https://www.effequ.it/lo-schwa-secondo-noi/) per l’uso dello schwa (obbligatorio per i saggi e a discrezione per la narrativa).

[6] Soprattutto quando l’attuale regola grammaticale prevede l’uso del maschile sovraesteso lì dove ci si trovi in presenza di gruppi misti di persone o in condizione di genere non binario.

[7] https://www.miur.gov.it/web/guest/normativa?p_p_id=1_WAR_miurmulticategoriesnavigator100SNAPSHOT&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&p_p_mode=view&p_r_p_categoryIds=1115063%2C20655, ultima consultazione il 5 aprile 2022.

[8] https://www.change.org/p/lo-schwa-%C9%99-no-grazie-pro-lingua-nostra, ultima consultazione 5 aprile 2022.

[9] https://www.vivereinalto.it/2021/12/06/il-dubbio-e-la-complessita-vera-gheno/, ultima consultazione il 5 aprile 2022.

[10] Sabatini A., Il sessismo nella lingua italiana (1993), Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1993.

[11] De Mauro T., Il plurilinguismo nella società e nella scuola italiana, in Simone R. e Ruggiero G., Aspetti sociolinguistici dell’Italia contemporanea (1977), Roma, Bulzoni, 1977, p. 87.

[12] De Mauro T., La comprensione del linguaggio come problema in Capire le parole (1994), Bari, Laterza, 2019, p. 52.

[13] Malizia P., Il Linguaggio della società: piccolo lessico di sociologia della contemporaneità (2006), Milano, Franco Angeli, 2006, p. 103. 

[14] John Rogers Searle è un filosofo statunitense, nato a Denver (Colorado) il 31 luglio 1932, noto per i suoi contributi alla filosofia del linguaggio e alla filosofia della mente e per il suo approccio pragmatico al problema del significato, caratterizzato dalla teoria degli atti linguistici, per la quale le emissioni verbali significanti sono delle forme di comportamento. Noto anche per i suoi studi sull’intenzionalità, alla quale riconosce un’origine biologica e risolvendo il dualismo tra fisico e psichico attraverso il doppio livello neurofisiologico e mentale. Alcune delle sue opere principali sono: Speech acts. An essay in the philosophy of language (1969; trad. it. 1976); Intentionality. An essay in the philosophy of mind (1983; trad. it. 1985); Mind, brains and science (1984; trad. it. 1988); The rediscovery of the mind (1992; trad. it. 1994); Freedom and neurobiology: reflections on free will, language, and political power (2007); Seeing things as they are. A theory of perception (2015; trad. it. 2016); Il denaro e i suoi inganni (con M. Ferraris, 2018).

[15] Searle J. Coscienza, linguaggio, società (2009), Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, p. 56.

[16] Tale licenza fa riferimento alle opere di Zygmunt Bauman, sociologo polacco, quali: Liquid Modernity, (2000; trad. it. 2002), Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds (2003; trad. it. 2004), Liquid Life (2005; trad. it. 2006). Liquid fear, (2006; trad. it. 2008). 

Gennaro Rollo

Gennaro Rollo, nato a Napoli il 2 febbraio 1985, è laureato in Chimica e assegnista di ricerca presso l’Istituto di Polimeri del CNR in sede a Lecco. Appassionato di linguistica e dialettologia, ha seguito diversi corsi presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Il serraglio.

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