immagini

Che cosa vogliamo dalle immagini?

Un’emozione è implicata in una situazione il cui esito è sospeso e in cui il sé che si muove nell’emozione è coinvolto vitalmente.              

Dewey, Arte come esperienza

Introduzione

Se ci soffermiamo su alcune dinamiche tipiche della contemporaneità, ci accorgiamo che la società della comunicazione attualmente mira a non farci fare fatica. Sostituendosi a noi, ci impedisce di appropriarci di determinati contenuti culturali, come le opere d’arte. La relazione che intercorre tra un’immagine e il suo spettatore può così complicarsi. Lo spettatore si può considerare veramente libero nel suo giudizio?

Rovesciando il titolo del saggio di W. J. Thomas Mitchell, What do pictures want?,[1] in questo articolo ci interrogheremo sul nostro modo di fruire di immagini e opere d’arte, sui meccanismi in atto e su cosa effettivamente ricerchiamo quando osserviamo un’opera d’arte come una fotografia.

Per farlo, introdurremo brevemente alcune nozioni fondamentali di cultura visuale, come i meccanismi di proiezione e identificazione, i sistemi mirror, la simulazione incarnata e i neuroni specchio.[2] In seguito, ci soffermeremo sulla questione sollevata da Roland Barthes, in Mythologies, ovvero su come l’intenzionalità del fotografo di trasmettere determinate emozioni annulli il loro effetto sullo spettatore.

Perché la nostra capacità di identificarci e proiettarci in quel che vediamo viene annullata nel momento in cui ci rendiamo conto di essere stati indotti a provare una determinata emozione?

Cercheremo dunque di dimostrare quanto sia imprescindibile che nessuno si sostituisca a noi nell’indicarci quali sentimenti provare, pena l’assenza totale di emozioni. Di conseguenza, rivendicheremo l’importanza di interrogare e interpretare criticamente ciò che vediamo.

Sulle tracce delle origini della “cultura visuale”

Il concetto di “cultura visuale” – secondo le indagini che Andrea Pinotti[3] e Antonio Somaini[4] riportano in Cultura visuale – risale agli anni Venti del secolo scorso.

In Austria e in Germania vennero introdotti i termini “visuelle Kultur”, “optische Kultur” e “Schaukultur”, rispettivamente “cultura visuale”, “cultura ottica” e “cultura della visione”. Tali termini venivano usati per spiegare come i media ottici, in particolar modo fotografia e cinema, stessero ridefinendo le “coordinate del visibile”.[5]

Béla Balázs[6] nel suo volume critico sulla teoria del cinema, L’uomo visibile, pubblicato nel 1924, celebra il ritorno a una nuova “cultura visuale”. Contro lo «spirito leggibile»[7] dovuto alla carta stampata, colpevole di predominanza nei confronti delle altre forme di comunicazione.

In questa nuova era, inaugurata dall’invenzione del cinematografo, Balázs riscopre una nuova condizione di prossimità con le cose. Ed è proprio questo nuovo tipo di prossimità a condurci verso i meccanismi di partecipazione visiva e visuale.

I meccanismi di identificazione e proiezione. Dalla psicanalisi…

Proviamo a interrogare il nostro modo di fruire di immagini (opere d’arte e fotografie) e film, chiedendoci quali sono i processi in atto quando ci confrontiamo con un’immagine.

La visione implica diversi gradi di partecipazione e coinvolgimento, i quali, secondo l’interpretazione psicanalitica, fanno leva sui meccanismi di identificazione e proiezione. Questi si attivano quando si produce un distacco tra l’ambiente fittizio e l’ambiente reale.

Questa separazione è necessaria dal momento che lo spettatore non può vivere contemporaneamente le due dimensioni. Lo stesso accade quando si legge un libro: il lettore stringe il patto del “come se” con lo scrittore. Ovvero accetta di entrare in uno spazio fittizio, lasciando momentaneamente da parte la “realtà” e accettando di sospendere l’incredulità a cui altrimenti sarebbe confrontato.

Nel caso dell’audiovisivo, l’abdicazione alla realtà è generalmente favorita da una postura immobile e dalla prevalente oscurità dell’ambiente in cui si fruisce della pellicola. Anche a casa tendiamo a predisporre una situazione adeguata alla fruizione dell’audiovisivo. Queste due condizioni facilitano e rendono possibile l’attivazione dell’identificazione e della proiezione.

Secondo Freud l’identificazione è una “forma di legame emotivo[8] che spinge lo spettatore ad appropriarsi di alcune caratteristiche di un determinato personaggio (non necessariamente del protagonista). Attraverso il transfert, dunque, lo spettatore può assumere una nuova identità, che gli sarebbe preclusa nella realtà.

Tramite la proiezione, lo spettatore attribuisce al personaggio comportamenti o emozioni che sono propri dello spettatore stesso, come spiega Alberto Angelini in Psicologia del cinema.[9]

…alla psicologia cognitiva

La transizione dalla psicanalisi alla psicologia cognitiva[10] è avvenuta, in particolar modo, grazie a due studiosi, Ernst Kris e Ernst Gombrich – di cui si parla ne L’età dell’inconscio di Kandel.  Questi autori hanno inteso la mente come una «macchina della creatività»,[11] capace di ricreare l’opera d’arte e come una «serie di funzioni svolte dal cervello»:[12] lo studio dell’arte doveva quindi includere le neuroscienze.

Di fatto, il cognitivismo e gli studi neurologici applicati alla filmologia si concentrano sull’empatia, sulla partecipazione emotiva e sul “rispecchiamento motorio”. Nel testo di Vittorio Gallese e Michele Guerra, Lo schermo empatico, si sottolinea l’importanza dell’empatia nella fruizione di un audiovisivo o di un’opera d’arte.

Gli autori tracciano una breve genealogia del termine, informandoci che se ne parla per la prima volta in Germania, nel XIX secolo, in ambito estetico. E che «la fruizione estetica delle immagini, in generale, e dell’opera d’arte, in particolare, implica un coinvolgimento empatico che si configurerebbe in una serie di reazioni fisiche nel corpo dell’osservatore».[13]

In particolar modo, la relazione estetica che si instaura con l’opera d’arte è possibile grazie al contenuto antropomorfo in cui lo spettatore trova corrispondenza e diventa «tutt’uno con il soggetto».[14]

È bene sapere, infatti, che quando «imitiamo l’espressione emotiva o le azioni di qualcuno, quali tambureggiare con il piede o strofinarsi il viso, tendiamo a provare una maggiore simpatia o compartecipazione con quella persona, e un maggiore desiderio di interagire con lei».[15]

Alla base della proiezione, nonché della partecipazione emotiva, vi è infatti l’attività di alcune «cellule nervose in specifiche regioni del cervello». Sono i neuroni specchio, presenti nella corteccia prefrontale. Questo tipo di neuroni è progettato per «riflettere le azioni e le emozioni delle persone di fronte a noi».[16]

Le ricerche riguardanti i neuroni specchio spiegano la grande importanza che ha assunto la teoria della simulazione incarnata o embodied simulation, un meccanismo tramite cui «le azioni, le emozioni e le sensazioni che vediamo attivano le nostre stesse rappresentazioni, come se fossimo noi i protagonisti di quelle azioni o sensazioni».[17]

Alla base della simulazione incarnata vi è infatti l’attivazione del medesimo circuito neurale. Osservare una determinata azione o compierla attiva la stessa popolazione di neuroni. Un esempio significativo, a questo proposito, ci è dato dalla vista di qualcuno che viene toccato o accarezzato in un film. Chi assiste a questa scena dal divano di casa riceverà pressoché gli stessi stimoli sensoriali di chi viene fisicamente toccato o accarezzato grazie all’attivazione delle cortecce somato-sensoriali.[18]

Il rapporto artista-spettatore

Dagli studi citati, si evince l’interrelazione tra la cultura visuale e lo spettatore. L’arte è, in sostanza, una forma di comunicazione che necessita della partecipazione dell’osservatore.

John Dewey,[19] con il saggio Art as experience, pubblicato nel 1932, predicava la necessità di interazione tra creatore e fruitore, ma anche tra fruitori diversi, scagliandosi contro il principio di “soggettività” dell’arte. La concezione secondo cui l’arte non è arte senza il coinvolgimento diretto dello spettatore è stata sviluppata, in modo particolare, da alcuni storici dell’arte di Vienna, tra cui Alois Riegl e Ernst Gombrich, che, a questo proposito, hanno formulato l’idea del ruolo attivo dell’osservatore essendo fermamente convinti che «senza l’interazione con l’osservatore un quadro non è completo».[20]

Ma che cosa innesca la partecipazione dell’osservatore e di conseguenza il completamento dell’opera d’arte? 

Kandel, ne L’età dell’inconscio, sostiene che «l’entità del contributo dello spettatore dipende dal grado di ambiguità dell’opera d’arte».[21] Maggiore è l’ambiguità dell’opera (nel nostro caso dell’immagine), maggiore sarà il grado di coinvolgimento dello spettatore:

I quadri ci impegnano, in parte, attraverso la creazione di ambiguità. Pertanto, un’opera d’arte susciterà reazioni diverse in spettatori diversi, o anche nello stesso spettatore in tempi diversi. Infatti, la ricostruzione percettiva di un’opera d’arte da parte di due persone diverse può essere differente quanto uno stesso paesaggio dipinto da due artisti diversi.

Kandel, L’età dell’inconscio, p. 442[22]

Infatti, secondo una logica che potremmo definire “costruttivista”, «il valore di un’opera d’arte consisterebbe nella capacità di stabilire un rapporto tra la progettualità intenzionale dell’artista e la ricostruzione di tale progettualità da parte del fruitore».[23]
Riassumendo, lo spettatore dovrebbe poter ricostruire la progettualità e confrontarsi con un elevato grado di ambiguità.

Photos-chocs

Dagli anni Sessanta e Settanta, si è delineata sempre di più la necessità di «continuità tra quelle forme raffinate e intense di esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e patimenti di ogni giorno».[24]

È così, infatti, che è nata la forma d’arte capace di documentare fedelmente la realtà: la fotografia. Contestualmente a essa, però, sono sorti gli interrogativi riguardanti l’impossibilità di conciliare la fedeltà alla realtà con la necessaria componente di ambiguità, affinché lo spettatore possa interrogare criticamente ciò che vede.

Roland Barthes, sensibile a questa problematica, nella sua raccolta Mythologies (Miti d’oggi, Einaudi), pubblicata nel 1957, aveva inserito un saggio, Photos-chocs, in cui criticava ferocemente la mancanza di ambiguità e, di conseguenza, l’impossibilità di esercitare il giudizio in quanto spettatori.

Il saggio prende spunto da una mostra allestita presso la galleria d’Orsay, in cui la maggior parte delle foto esposte voleva suscitare orrore. Ebbene, chi guardava non provava orrore, bensì indifferenza. Il motivo era da ricercarsi nell’intento del fotografo di sostituirsi a noi e alle nostre percezioni.

In questo modo, lo spettatore viene pressoché respinto dalle foto in questione, in quanto portatrici di un «linguaggio intenzionale di orrore»,[25] prodotto tramite accostamenti e contrasti che risultano grotteschi.

Qui di seguito proveremo a elencare alcuni altri esempi.

La funzione delle maschere nel film Eyes Wide Shut (Kubrick, 1999) è quella di suscitare nello spettatore sensazioni di paura e terrore, ma ciò che si ottiene è una reazione di rifiuto. Lo spettatore, infatti, non accetta di essere indotto a provare tali sensazioni, essendo consapevole del tentativo di manipolazione psicologica.

Allo stesso modo, se in una fotografia assistiamo al compianto di un soldato, “subendo” lacrime e dolore delle persone che lo circondano, nulla è lasciato all’immaginazione dello spettatore. Lo stesso vale se osserviamo un giovane militare ai piedi di un cadavere o il dettaglio ritagliato e modificato di una foto scattata in un campo di sterminio (Détail recadré de la fig. 5. D’après Auschwitz. A History in Photographs, dir. T. Swiebocka, Oswiecim-Varsovie-Bloomington-Indianapolis, 1993, p. 173).

Il risultato è sempre che nessuna di queste immagini, costruite ad arte, può emozionarci o essere significativa. Di fronte a questo tipo di foto, siamo infatti privati della nostra facoltà di giudizio: qualcun altro ha tremato, riflettuto e giudicato al posto nostro. Non ci è stato lasciato niente, se non un mero assenso intellettuale. Le immagini in questione traboccano di indicazioni fornite dall’artista, ma paradossalmente ci risultano estranee e senza interesse.

Georges Didi-Huberman,[26] nel suo saggio Images malgré tout, (Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, 2005), parla di “ipertrofia” a proposito della trasformazione da immagini a vere e proprie «icone dell’orrore».[27] Lo sguardo dello spettatore corre da una fotografia all’altra, senza registrare dettagli significanti.

Come può, chi osserva, accogliere questo «boccone sintetico, già perfettamente assimilato dal suo creatore»?[28] 

La possibilità che l’accoglienza risulti critica e proficua dipende dall’ambiguità dell’immagine e, di conseguenza, dallo spazio che il fotografo-demiurgo concede allo spettatore. Quest’ultimo, come già detto precedentemente, deve poter interrogare ciò che vede, per poterlo davvero accettare o rifiutare.

Alberto Moravia, nel film-inchiesta pasoliniano Comizi d’amore,[29] afferma:

Ecco, io direi questo, che una credenza che sia stata conquistata con la ragione e con un esatto esame della realtà è abbastanza elastica per non scandalizzarsi mai… Se invece è una credenza ricevuta senza una analisi seria delle ragioni per cui è stata ricevuta, accettata, sì, per tradizione, per pigrizia, per educazione passiva è… un conformismo…

Pier Paolo Pasolini, Comizi d’amore

Per analogia, se un’immagine viene ricevuta senza poter essere interrogata, si deposita in noi passivamente, senza che noi riusciamo a fruirne veramente. È imprescindibile quindi che il fotografo non si sostituisca a noi.

McLuhan[30] nel 1964 pubblicava Understanding media, in cui inseriva una distinzione tra media caldi (hot) e freddi (cool). La distinzione gli era stata suggerita da due diversi tipi di jazz, quello tradizionale (caldo) e quello moderno (freddo).

McLuhan sosteneva infatti che i media caldi erano saturi di informazioni, perciò lo spettatore non doveva fare alcuno sforzo per fruire di quel contenuto. Di contro, i media freddi lasciavano molto spazio allo spettatore, affinché ricostruisse e partecipasse attivamente alla costruzione di senso di un particolare contenuto. Secondo lui, la fotografia e il cinema erano media caldi, contrariamente alla TV o al telefono.[31]

Conclusione

Con il presente Articolo si è dunque cercato di dimostrare quanto conti la partecipazione dello spettatore per la costruzione del senso di un’opera d’arte. Perché questo avvenga è necessario che chi osserva possa conservare una certa dose di autonomia, garantita solo da una percentuale di ambiguità insita nell’opera d’arte.

Ed è proprio contro l’imposizione percettiva e la totale assenza di ambiguità che si scaglia Barthes con Photos-chocs, rivendicando l’importanza della fotografia in quando medium freddo – secondo la terminologia di McLuhan – che consenta al fruitore di porsi delle domande e di conseguenza di partecipare attivamente alla costruzione di senso.

Rispondendo alla domanda posta come titolo di questo Articolo, dunque, vorremmo poter essere confrontati all’ambiguità delle immagini, che spingerebbe a interrogarle e a fruirne pienamente, «malgrado tutto: […] e malgrado il nostro mondo saturo di contenuti visuali».[32]

A cosa serve l’arte, infatti, se non a porsi continuamenei nuovi interrogativi sulle nostre percezioni?

Note

[1] W. J. Thomas Mitchell è un accademico americano. Si è occupato di teoria dei media e di cultura visuale. Con il saggio What do pictures want?, pubblicato nel 2005, si era dissociato dalle prospettive del suo tempo, centrandosi sulle immagini e sui loro desideri, piuttosto che sulla volontà del loro creatore di trasmettere un determinato messaggio.

[2] Cfr. Solso, R.L., Cognition and the Visual Arts, MIT Press, 1996; Ramachandran, V.S., «The science of art: a neurological theory of aesthetic experience», J. Conscious. Stud, 6, 6–7, 1999.

[3]  Andrea Pinotti è filosofo e professore ordinario di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano.

[4] Antonio Somaini è professore di teoria del cinema, dei media e della cultura visuale presso l’Università Sorbonne Nouvelle.

[5] Pinotti A., Somaini A., Cultura visuale, Torino, Einaudi, 2016, p. 3.

[6] Béla Balázs (1884-1949) è stato uno scrittore, critico, regista e sceneggiatore ungherese.

[7] Balázs B., L’uomo visibile, Torino, a cura di L. Quaresima, Lindau, 2008, p. 123.

[8] Freud S., Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 9.

[9]  Angelini ne La psicologia del cinema scrive: “Sul piano strettamente psicoanalitico, per proiezione si intende quel processo con cui l’individuo espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, della qualità, dei desideri e dei sentimenti che egli non riconosce o rifiuta”.

[10] Per maggiori informazioni cfr. Miller G.A., Galanter e., Pribram K.H., Plans and the structure of behavior, New York 1960 (trad. it., Piani e struttura del comportamento, Milano 1973); U. Neisser, Cognitive Psychology, ivi 1967 (trad. it., Psicologia cognitivista, Milano 1975).

[11] Kandel E., L’età dell’inconscio, Milano, Raffello Cortina Editore, 2012, p. 211.

[12] Ibidem.

[13] Gallese V., Guerra M., Lo schermo empatico, Milano, Raffello Cortina Editore, 2015, p. 29.

[14] Kandel E., op. cit., p. 197.

[15] Ivi, p. 390.

[16] Ivi, p. 391.

[17] Freedberg D., e Gallese V., «Motion, emotion and empathy in esthetic experience», in Cognitive sciences, Vol. 11, n°5 maggio 2007.

[18] La corteccia somato-sensoriale è la parte del cervello imputata alla ricezione degli stimoli sensoriali.

[19] John Dewey (1859-1952) è stato uno psicologo, pedagogo e filosofo americano, fervente sostenitore del pragmatismo.

[20] Kandel E., op. cit., p. 195.

[21] Ivi, p. 196.

[22] Ivi, p. 442.

[23] Gallese, Guerra, op. cit., p. 30.

[24] Dewey J., Art as experience, Cambridge, Cambridge University Press, 1934, p. 32.

[25] Barthes R., Mythologies, Paris, Éditions du Seuil, 1957, p. 96.

[26] Georges Didi-Huberman è un filosofo e storico dell’arte francese.

[27] Didi-Huberman G., Images malgré tout, Paris, Éditions de Minuit, 2003, p. 50.

[28] Barthes, op. cit., p. 98.

[29] Pasolini P., Comizi d’amore, 1965.

[30] Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) è stato un filosofo, sociologo, critico e professore canadese.

[31] A questo proposito, occorre precisare che, con l’evolversi del panorama mediale, assistiamo a oscillazioni interne a una stessa categoria.

[32] Didi-Huberman, 2003, p. 11 (la traduzione è mia).

Fonti

ANGELINI Alberto, Psicologia del cinema, Napoli, Liguori, 1992.

BALÁZS Béla, L’uomo visibile, Torino, a cura di L. Quaresima, Lindau, 2008.

BARTHES Roland, Mythologies, Paris, Éditions du Seuil, 1957.

DEWEY John, Art as experience, Cambridge, Cambridge University Press, 1934.

DIDI-HUBERMAN Georges, Images malgré tout, Paris, Éditions de Minuit, 2003.

FREEDBERG David, GALLESE Vittorio, «Motion, emotion and empathy in esthetic experience», in Cognitive sciences, Vol.11, n°5, Maggio 2007.

FREUD Sigmund, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Torino, Bollati Boringhieri, 1983.

GALLESE Vittorio, GUERRA Michele, Lo schermo empatico, Milano, Raffello Cortina Editore, 2015.

KANDEL Erik, L’età dell’inconscio, Milano, Raffello Cortina Editore, 2012.

LAIRD SOLSO Robert, «Cognition and the Visual Arts», MIT Press, 1996.

MCLUHAN Marshall, Understanding media, Cambridge, The MIT press, 1964.

MITCHELL J. W. Thomas, What do pictures want?, Chicago, The University Press of Chicago, 2005.

PINOTTI Andrea, SOMAINI Antonio, Cultura visuale, Torino, Einaudi, 2016.

RAMACHANDRAN Villayanur, «The science of art: a neurological theory of aesthetic experience», J. Conscious. Stud, 6, 6–7, 1999.

Debora Sciolla

Debora Sciolla è nata a Ceva (CN) nel 1998. Si è laureata in Lingue e Letterature Moderne e ha concluso il suo percorso Magistrale con una tesi letteraria sulle Difficoltà comunicative del nucleo familiare nel romanzo francese contemporaneo. Ha insegnato francese per un anno in una scuola media. È lettrice per il noto premio letterario italiano “Calvino” e sta insegnando italiano in un istituto superiore in Francia.

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